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Dove la scienza non può arrivare. «L'occhio del pettirosso», un enigmatico romanzo di Giuliana Altamura

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L'occhio del pettirosso
di Giuliana Altamura
Mondadori, febbraio 2022

pp. 168
€ 17,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Riuscire a superare i limiti del sapere, spingendosi oltre l'immaginabile con nuove scoperte della fisica e della scienza: è un sogno che ha portato più volte l'uomo a oltrepassare barriere di conoscenza, ma anche confini etici. La domanda sottostante è nota: a cosa siamo disposti a rinunciare, pur di arrivare all'obiettivo, ovvero a una scoperta rivoluzionaria? In tanti nella letteratura degli ultimi secoli si sono posti questa domanda e le risposte sono state le più varie; da Mary Shelley a Buzzati, fino ad autori contemporanei, quali Ishiguro o Scianna: ognuno ha dato una sua personale risposta. Sempre ben poco rassicurante, a dire il vero. 

Con il suo nuovo romanzo, Giuliana Altamura prova a portarci nell'ambito della fisica quantistica. Quando l'ho scoperto, la mia prima reazione è stata: ci provo! Che sia l'occasione giusta per smettere di fare a pugni con la fisica? Trovo che questa premessa sia fondamentale, perché sia trasparente fin dall'inizio il mio approccio complesso a un libro che ho maneggiato fin dal principio come una sfida alla mia iniziale ritrosia verso la materia. Ho messo da parte i pregiudizi, complice il fatto che Altamura ha scritto un romanzo e non un saggio, e dunque il terreno di indagine è infinitamente più amichevole. 

Protagonista è Errico Baroni, un ricercatore del CERN, che coi suoi collaboratori sta lavorando alla costruzione di un modello di computer quantistico: se riuscissero nell'impresa, supererebbero il calcolo binario e creerebbero il computer più avanzato del mondo. Per dirla con le sue parole, un computer quantistico 

«è in grado di esplorare in modo simultaneo ogni soluzione possibile ai quesiti che gli poniamo, a una velocità superiore a quella della luce. Presto sarà capace di risolvere problemi ritenuti finora inaffrontabili» (p. 11). 

Baroni ne parla a Egon Meister, una figura enigmatica che racconta ai suoi pazienti il loro passato, il presente e il futuro dopo averli guardati per qualche attimo. Baroni è lì per saperne di più, ma soprattutto desidera provare a vedere il mondo con gli stessi occhi di Meister, per capire se quell'uomo sia in grado di vedere la quarta dimensione. In questa conversazione, che ci dà una sensazione di desiderio utopistico, chiaramente irrealizzabile, si aggiunge un altro fattore che condizionerà tutto il romanzo: appare chiaro che tra i ricordi di Baroni c'è qualcosa, un trauma infantile, tanto grave da essere stato in parte rimosso. Prima che se ne vada, Meister lascerà il suo strano paziente con una frase sibillina, che rintoccherà più volte nella narrazione: «Gli occhi di un uccello le saranno molto più utili dei miei» (p. 15). 

Qualcuno di voi potrebbe chiedersi: tutto questo succede entro pagina 15? Esatto. Mi sono chiesta più volte il perché di questa scelta; ipotizzo che all'autrice servisse fin dall'inizio introdurre in modo piuttosto svelato le carte fondamentali di un gioco intricato e rischioso, perché il lettore restasse intrigato. E in effetti nelle pagine successive Baroni, io narrante piuttosto inaffidabile, denuncia un progressivo malcontento: verso la ricerca e verso la sua vita con la moglie Greta. Anche la donna, a modo suo, cerca di svelare i segreti dell'Universo, ma lo fa ricorrendo alla lirica e allo studio della poesia. Fin da cinque anni prima, quando il protagonista e Greta si sono conosciuti, il loro è stato un rapporto strano, che si comprende meglio attraverso alcuni flashback che attraversano l'opera. Anche sul loro legame, tuttavia, compare nelle prime pagine una riflessione di Baroni estremamente autoanalitica: 

«Io e Greta non ci mancavamo affatto, o meglio, riuscivamo a mancarci solo quando eravamo insieme. Vivevamo talmente immersi nella nostra ricerca da contemplare, nell'amore per l'altro, il riflesso più variopinto di una solitudine che appariva irrinunciabile, almeno per me». (p. 24)

Se all'inizio «in qualche modo, la cosa funzionava», poi qualcosa si incrina ed ecco che la proposta è quella di dedicarsi un weekend in montagna, nella casa di famiglia dove Baroni non va da anni. Tuttavia, lassù qualcosa di nuovo irrompe nella vita del protagonista: un incontro con una giovane barista, Jinrou. Ma non pensate a una svolta sentimentale; semmai, si tratta di una pericolosa ma potenzialmente risolutiva svolta per la ricerca scientifica di Baroni, a cui si intreccerà un ulteriore studio nel campo delle criptovalute. Cosa c'entrano le due cose? Non posso rivelarlo qui, o toglierei la giusta ombra su alcuni misteri del romanzo. 

Posso invece premettere che quel che aspetta Baroni è una costante messa in crisi delle sue certezze:

Come potevo spiegargli che ero in crisi proprio perché non trovavo più un senso in quello che facevo? Che algoritmi sempre più potenti e macchine sempre più veloci non soddisfacevano affatto la mia sete di sapere, anzi nutrivano giorno dopo giorno la mia convinzione che ogni conquista avvenisse al prezzo di un occultamento, della rimozione di una verità più profonda, l'unica che conti davvero e a cui, nonostante i miei sforzi, non riuscivo ad arrivare. (p. 98)

Paradossalmente, vedrete che i dubbi sul suo lavoro sono solo la punta di un iceberg. Attratto quasi ossessivamente da ciò che è istinto, ma terrorizzato all'idea di perdere il controllo, Baroni è un uomo pieno di contraddizioni, solo ed egoista nelle sue convinzioni e nei suoi bisogni, sordo a quelli degli altri. La moglie, d'altro canto, sembra essere la sua esatta metà: immersa nella sua frustrazione di non essere ancora madre e di non riuscire a creare nuovi versi convincenti, è la “versione umanistica” dell'irrisolto Baroni. 

Dove vuole portarci l'autrice? È per rispondere a questa domanda che ho proseguito nella lettura del romanzo, che purtroppo mi ha tenuta a distanza dalla prima all'ultima pagina. Ed è un vero peccato, perché la scrittura di Altamura è curata anche in questo nuovo romanzo, ma temo che la responsabilità di tale straniamento vada alla materia, per me davvero ostica, e a una contraddizione interna che ha messo in crisi la mia fiducia nella verosimiglianza del romanzo: come fa un personaggio intricato e irrisolto come Baroni a essere, viceversa, un narratore così abile nell'autoanalizzarsi in sequenze riflessive approfondite e apparentemente risolte? 

GMGhioni