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Mary Shelley, “Frankenstein”

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Frankenstein
di Mary Shelley

1^edizione: 1818
2^ edizione (riveduta): 1831

C’è una storia d’amore che lega un poeta e una scrittrice entrambi inglesi: Percy Bysshe Shelley (1792 – 1822) e Mary Shelley (1797 – 1851)
Mary è figlia della femminista Mary Wollstonecraft, ed è cresciuta secondo i libertari principi dell’ideologia materna, Percy è sposato con Harriet, dalla quale ha dei bambini che gli verranno poi sottratti. Quando s’incontrano, Mary ha diciassette anni, s’innamorano, fuggono insieme e riescono a sposarsi solo dopo l’improvvisa vedovanza di lui. Mettono al mondo molti figli di cui solo pochi sopravvivono ai genitori. Trovano rifugio alle loro peregrinazioni in Italia, dove Percy muore tragicamente in barca a largo di Lerici. Lo bruciano sulla spiaggia di Viareggio, in puro stile romantico, lei torna in patria giurando che curerà le edizioni delle opere del marito e porterà il suo nome fino alla fine dei suoi giorni.
Lui è uno degli esponenti di spicco fra i Lake Poets, insieme a Wordsworth, Keats, Coleridge. Scrive “Ode to a Skylark” e la tragedia “the Cenci”, ma quella che lascia un graffio, una zampata, un’orma nell’argilla dell’immaginario collettivo e nella storia del fantastico è lei, Mary.


La sorellastra di Mary, Claire Clairmont, diventa l’amante di Lord Byron, il quale comincia a bazzicare la casa degli Shelley, villa Diodati sul lago di Ginevra, insieme ad un altro amico, John Polidori. Piove, le serate sono tediose e fredde, la compagnia passa il tempo leggendo novelle tedesche di fantasmi. Viene  lanciata l’’idea di una gara a chi scrive la storia gotica più spaventosa ed intrigante. Nascono così “Il Vampiro” di  Polidori, ispirato alla figura di Byron e primo esempio di succhia sangue raffinato e malinconico, e “Frankenstein” di Mary Shelley.
Sul principio lei non ha idee, ogni mattina si alza e dice che non le è venuto in mente nessun soggetto da cui trarre una trama interessante, mentre tutti gli altri già scrivono. Sente però gli uomini che discutono di principio della vita, di darwinismo, di galvanismo. Poi, una notte, ha un incubo, vede un essere terrificante, assemblato da uno studente che gli sta inginocchiato accanto. Si sveglia sconvolta, capisce che, se riuscirà a trasfondere sulla carta lo stesso spavento che ha provato nel sogno, creerà qualcosa di potente.

Ed è così, infatti. A soli diciannove anni, nel 1817, Mary dà vita ad una creatura che resterà nel mito collettivo: il mostro senza nome plasmato dallo scienziato Victor Frankenstein. Il romanzo esce in forma epistolare e anonima e solo in un secondo tempo si scoprirà che l’autore non è Percy Bysshe Shelley ma la sua giovane moglie.  Sarà un successo, al pari del più tardo “Dracula” di Bram Stoker (1897).
Il personaggio di Victor s’ispira a Percy Bysshe, ha, come lui, amore per la scienza, passione e anima spirituale. L’orgoglio lo spinge ad atteggiarsi a creatore, a voler superare la natura dando origine ad un essere più forte, più sano, più intelligente e longevo del normale. Accadrà l’opposto: dai pezzi di cadavere cuciti insieme e rianimati tramite la corrente elettrica (che allora doveva apparire come qualcosa di fantascientifico e magico insieme) esce una creatura orribile, dall’aspetto spaventoso e dai modi animaleschi, incapace di trattenere gli impulsi omicidi. Ossessionato dalla sete di conoscenza, Victor si è spinto oltre il lecito e la natura si è ribellata, l’uomo non può competere con Dio, non può infrangere le leggi dell’ universo, pena la morte, la distruzione.

A unire ancora una volta Mary e suo marito è il sottotitolo del romanzo, “The Modern Prometheus”. Nel 1820 Percy scriverà, infatti, “Il Prometheus Unbound”. È interessante vedere come entrambi i coniugi si siano ispirati alla stessa figura ma usando aspetti diversi del mito. In Mary, Prometeo non si limita a rubare il fuoco per donarlo all’umanità ma lo usa per plasmare l’argilla e modellare l’uomo stesso. In entrambi i casi Prometeo è un simbolo di ribellione, di rivolta contro la volontà divina con tutte le conseguenze che ne derivano.
L’atmosfera del romanzo risente del romanticismo dei versi di Coleridge, in particolare “The Ballad of the Ancient Mariner”. Nella cornice fantastica del gotico si concretano angosce metafisiche e anticipazioni scientifiche distopiche, come quelle in seguito sviluppate da Wells nei suoi romanzi. (“The Time Machine” è del 1895)
Di là dalle implicazioni etiche, tuttavia, il testo ci colpisce per il profondo romanticismo della figura del mostro, che tutti tendiamo a chiamare Frankenstein, scambiandolo per il suo artefice.
Il mostro ha un’evoluzione: osserva gli esseri umani, impara da loro a parlare, legge Milton e il diario di Victor Frankenstein. Apprende la lingua, i sentimenti, le aspirazioni degli uomini, desidera frequentarli, conoscerli, aiutarli, farsi benvolere. Ma il suo aspetto lo condanna: tutti lo rifiutano, tutti fuggono  atterriti davanti a lui, i suoi gesti gentili sono scambiati per aggressioni. Il dolore lo schiaccia, fa esplodere la rabbia ed egli ricomincia a uccidere, diventa completamente ciò che tutti credono sia. Solo e dannato vaga per il mondo, “Everywhere I see bliss, from which I alone am irrevocably excluded.
La figura ha una grande valenza romantica, avvolta com’è nella sua immensa solitudine, ispira orrore e compassione insieme, perché capiamo che la sua cattiveria deriva dal dolore e dai rifiuti subiti. Chiede, infatti, al suo creatore di fargli una sposa, una femmina della sua razza. Victor Frankenstein si mette all’opera, ma poi ci ripensa, non volendo produrre una genia di obbrobri. Quando il mostro lo scopre, il dispiacere lo sopraffa e per vendicarsi gli uccide l’amata moglie Elisabeth.
Proprio leggendo il diario del dottor Frankenstein, l’infelice essere scoprirà quanto il suo creatore  sia deluso di lui, quanto lo disprezzi e lo abbia voluto diverso. Come un figlio non amato dal padre, si sente ferito, solo e disperato.
Ci sarà poi lo scontro finale, con la creatura che ucciderà il creatore (come nelle ultime scene di “Excalibur”, il film di John Boorman, dove Re Artù e il figlio Mordred - nato dall’incesto con Morgana - si ammazzano a vicenda.) È l’eterno mito del Doppelgänger, l’alter ego maligno che incarna ed esterna tutto ciò che di oscuro e cattivo si cela nella nostra anima, è Mr Hyde per dr Jekyll, è Gollum per Frodo, è Voldemort per Harry Potter.
Ma quanto dolore, quanto rimpianto nella creatura che distrugge il suo creatore. Ci viene in mente il primo “Star Trek” (di Robert Wise, 1979) dove l'antica sonda Voyager 6, partita centinaia di anni prima  dalla Terra, cerca disperatamente di riunirsi all’umanità che l’ha costruita.  
Lo stesso desiderio di unità, di riappacificazione con il padre/creatore, e, insieme,  di cupio dissolvi, si ha nel romanzo della Shelley.
He is dead who called me into being; and when I shall be no more, the very remembrance of us both will speedily vanish. I shall no longer see the sun or stars, or feel the winds play on my cheecks. Light, feeling, and sense will pass away; and in this condition must I find my happiness.”
Da non dimenticare, il bel film che, nel 1994, Kenneth Branagh ha tratto dal romanzo, se possibile addirittura migliorandone e portandone a compimento la trama. Il mostro miserevole  vi è interpretato da Robert de Niro, Elisabeth Lavenza è Helena Bonhan Carter e Victor Frankenstein lo stesso Branagh. Si ricorda, infine, anche la riuscitissima parodia girata da Mel Brooks: “Frankenstein Junior”.