L'impalpabile materia della malinconia riesce a farsi visibile e concreta nei libri di Georgi Gospodinov, il più acclamato scrittore bulgaro a livello mondiale, già autore di titoli di successo come Fisica della malinconia e Cronorifugio.
È un atto magico il suo: saper mostrare qualcosa che è talmente trasparente e sottile rivelandocelo in tutti i suoi invisibili colori. La malinconia come dolcezza, empatia, emozione labirintica che permette di vivere più vite di quelle che a ciascuno di noi sono concesse.
Questa nuova opera, Il giardiniere e la morte, è un libro sulla malinconia per la vita che se ne va, con un eroe buono che muore alla prima pagina - e questo non è uno spoiler - ma che continua a vivere nelle storie che lo hanno abitato.
L'eroe è il padre di Gospodinov e questo è molto più del racconto della sua malattia, è un testo che racconta che vivere è come curare un giardino. A partire da quel lapidario: «Mio padre era giardiniere. Ora è giardino.» (p. 14) comincia la narrazione di una vita insieme, la storia di parole che sono come mele, ciliegie, grossi pomodori rossi o svettanti tulipani. Si potrebbe dire che questo romanzo senza genere ben definito (a un certo punto lo si definisce un "romanzo-giardino"), come indefinite sono le dinamiche della nostra esistenza, parla della morte (e la morte ce l'ha nel titolo), ma la realtà è che parla più della vita e di come metterla a frutto, letteralmente.
Seppelliamo più volte i genitori nelle nostre teste. Il timore che un giorno possano morire è certamente uno dei timori più precoci. Da bambino mi alzavo di notte per controllare che mia madre respirasse, ricordava un mio amico. È la paura naturale del bambino per coloro senza i quali rimarrebbe solo. Paura per loro o piuttosto per sé stesso? Non sono sicuro che questa alternativa sussista. È la stessa, unica paura. (p. 20)
La paura della morte che si avvicina toglie il fiato in certe pagine ma ha il valore di forzare anche la ricerca della bellezza, le conversazioni affettive, «illumina la nostra mortalità» (p. 42) ricordandoci che siamo fragili come tutte le cose che passano ma resistenti come un giardino che si rinnova di anno in anno. È vero che la felicità dura come i gigli, mentre la tristezza come le erbacce, ma c'è tanta gioia in queste pagine e non mancano gli aneddoti divertenti. È proprio a questi che Gospodinov fa ricorso quando sente le parole mancare e la paura della perdita prende il sopravvento. Il padre era un cantastorie, una miniera inesauribile di ottimismo, una persona che sapeva cercare il sublime in ogni cosa. Nel ricordarlo viene fuori un libro che di sublime è pieno zeppo.
Il giardiniere e la morte si fronteggiano come fossero i protagonisti di una favola o di un'epopea mitica. Anche se la morte pare avere la meglio il giardiniere in realtà sa come si muore in bellezza, senza morire, perché conosce la botanica in quanto arte della vita.
Questo romanzo malinconico è ricco dei grandi temi della produzione letteraria di Gospodinov, primo tra tutti il tempo che non è mai coerente con se stesso. La morte del padre lo porta a vederlo (ri)vivere a ogni età, dentro un tempo non lineare, le cronologie personali cambiano con l'avanzata della malattia ma se ne scrivono sempre di nuove grazie al giardino che si ricrea, ai bambini che crescono, ai ricordi che sedimentano come fertilizzante per nuove esperienze.
Mio padre era quell’Atlante che sosteneva sulle spalle tonnellate di passato. E ora che se ne è andato sento tutto questo passato sgretolarsi, rovesciarsi silenziosamente su di me e seppellirmi con tutti i suoi pomeriggi. I pomeriggi dell’infanzia crollare silenziosamente. E non ho chi chiamare in aiuto. (p. 172)
Lo scrittore non fa mai un racconto razionale e distaccato della morte, non ce lo mostra come un evento risolto e banalmente accettato. In questo libro scritto a mano e concluso nel giorno di San Giorgio c'è tutto il senso della perdita e ci sono tante domande senza risposta.
Perché nessuno ci insegna come morire e come accettare la morte degli altri?
Chi ci dice come invecchiare?
Di cosa parliamo davvero quando affrontiamo la morte?
Dove vanno quelli che se ne vanno?
Delicato e costante il sistema di parallelismi tra le allegorie del giardinaggio e quelle del morire, una struttura di rimandi incrociati e fittissimi che dicono molto della nostra fugacità e della nostra persistenza come esseri umani. Lo stile riflette tutto questo con il suo andamento piano, leggero e dialogico.
Nelle commoventi pagine finali - che il traduttore Giuseppe Dell'Agata presenta come «uno straordinario pezzo di bravura, tipicamente postmoderno, con la ripetizione anaforica del nesso "non so cosa fare"» (p. 195), Gospodinov si chiede cosa fare di quello che ci rimane.
Cosa fare con i giorni e le notti, con le estati, con tutte le questioni che si presenteranno, con gli strumenti del capanno e con gli appunti sparsi di botanica, cosa fare con le storie che abbiamo raccontato e con quelle ancora taciute, cosa fare con la Pasqua, il Natale, i compleanni e tutte le feste che lo attendono. Cosa fare lui non lo sa e non lo sappiamo nemmeno noi, ma questo libro è una risposta tra le tante possibili. È il regalo di uno scrittore che ha perso un padre e serve a tutti noi che lungo il cammino perdiamo i padri, la strada, le orme da seguire.
Insieme a Gospodinov siamo tornati nel labirinto della malinconia dove stava rinchiuso il Minotauro di un altro dei suoi romanzi: ci sentiamo spezzati, mutilati e mancanti ma tenendoci insieme siamo ancora interi e pronti a germogliare alla prossima primavera. Questo è ciò che possiamo fare.
Claudia Consoli
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