Il folle
di Henning Mankell
Marsilio, settembre 2025
€ 19,95 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)
Nel mio sogno Bertil Kras appare come un folle.Mi viene incontro in una luce rosa, non riesco a distinguere i suoi passi, si ferma a qualche metro da me. È un’apparizione silenziosa, pare quasi che non voglia disturbare. Nei suoi occhi c’è qualcosa di schivo, sembra molto stanco. Rimane così, completamente immobile: è come se fosse sempre stato lì. (p. 11)
È il crudo secondo dopo guerra e
Bertil Kras, giovane, forte e comunista, dopo un incidente alla caviglia che lo
tiene lontano dal lavoro – fa consegne in bici in giro per la città – decide di
fare le valigie – in realtà tutti i suoi averi entrano in un solo zaino – e di
scappare da Stoccolma alla volta del nord, tanto perché «avevo voglia di
guardarmi un po’ intorno» (p. 58). Ormai, a ogni modo, non c’è più nulla a
tenerlo nella sua città natale: sua madre, ormai anziana, è venuta a mancare
durante il periodo bellico e suo padre, noto come “il marinaio”, l’ha
conosciuto solo attraverso le parole della madre. È dunque una crescente
sensazione di sradicamento a spingerlo via dalla città, troppo grande per
sentirsene veramente parte.
Alla fine, dopo lungo vagabondare, si stabilizza in
una piccola cittadina del Norrland: qui trova lavoro nella segheria di Rader,
uno degli uomini più ricchi del villaggio e, senza neanche accorgersene, inizia
a mettere radici, grazie all’incontro con Margot, donna poco più grande di lui e
già madre della piccola Kristina, soprannominata teneramente Rubino.
Il giorno dopo iniziarono a costruire una vita insieme. Sempre più spesso Bertil andava da Margot direttamente dalla segheria e lei gli lasciava Rubino quando andava a lavorare in caffetteria. Il loro tempo insieme, con la bambina al centro, era colmo di calore e fiducia. Bertil pensava spesso che senza Margot e Rubino non sarebbe rimasto in città. (p. 174)
Il luogo in cui Bertil
inconsapevolmente approda, però, è ben lungi dall’essere una ridente cittadina placida
e tranquilla, così diversa dalla metropoli, Stoccolma, da cui è fuggito. Stanno
infatti riemergendo dalle pieghe del passato – un passato abbastanza recente – e
tenute ben nascoste agli occhi meno attenti, delle scomode verità: negli anni
più burrascosi della guerra, quando l’invasione tedesca della Svezia sembrava
vicina e inevitabile, venne dato ordine, dall’alto, di internare tutti gli
oppositori politici – i comunisti, gli anarchici e i sindacalisti, in breve –,
in un vero e proprio campo di concentramento, sorto nel mezzo dei boschi che
circondano la cittadina al fine di celarlo da occhi indiscreti. Una
prigione a cielo aperto smantellata in fretta e furia quando per la Germania le
cose si misero male e la guerra si avviava verso la sua conclusione.
Come ho detto il campo era nel bosco. Ed è ancora lì. Il bosco ha guarito quella ferita di cento ettari dove comunisti, sindacalisti, anarchici e altri «elementi politici che, in nome della sicurezza del paese, devono essere internati» vivevano in baracche. Gli alberi hanno piano piano invaso il luogo dell’incendio. Soltanto chi sa è in grado di trovarne le tracce. (p. 19)
Gli internati di allora, vivi
solo perché la guerra si è conclusa male per il Reich – e di questo loro sono
sicuri – , una volta conclusa la guerra vorrebbero far emergere questa
vergognosa pagina della storia nazionale, mossi da un genuino senso di giustizia:
affidano allora le proprie parole di condanna al giornale locale, facendo
pubblicare delle lettere in cui, nero su bianco, denunciano fatti e
responsabilità. Ma – e questa è una storia vecchia quanto il mondo – i responsabili, simpatizzanti
del regime nazista, ancora i cittadini più in vista e abbienti della cittadina, proprio come Rader, il proprietario della segheria in cui Bertil lavora, cercano
di insabbiare tutto, ancora una volta. 
«Dobbiamo unire le forze» dice Svante. «Dobbiamo portarli in tribunale, insieme. Sono pezzi grossi, certo, ma uniti possiamo testimoniare l’uno per l’altro. Lo sanno tutti chi era coinvolto». (p. 74)
Ed è a questo punto che la vita
di Bertil si interseca con il corso più ampio degli eventi. Inizialmente
additato come sobillatore del gruppo degli ex internati – diceria messa in giro
proprio da Rader e il suo gruppo, per allontanare da loro le accuse di
coinvolgimento con il regime –, quando in un freddo giorno di gennaio la
segheria brucia, l’intera comunità sospetta che ad averle dato fuoco sia stato
proprio Bertil. Perché Bertil è un comunista. Perché Bertil è un forestiero. Perché,
quindi, è il colpevole perfetto. Nell’indifferenza generale, a partire da
questo momento, comincia una sfibrante caccia all’uomo: è ora che la necessità
di radicamento, grazie alla relazione con Margot ma grazie anche all’amicizia nata
con gli ex internati con i quali condivide la fede politica, inizia a cozzare
con queste forze centrifughe che lo vorrebbero fuori dalla città.
Svante non poteva più rimandare. «Lo sai a chi si riferisce in quella lettera?»
«Il vagabondo, o come lo chiama?»
«Sì.»
«No, non lo so.»
«Si riferisce a te Bertil. » […] «È una gran porcata» continuò Svante. «Tu non hai nulla a che fare con questa faccenda. Dovevano inventarsi qualcosa e mettere in giro voci per distogliere l’attenzione dai fatti. Non hanno nessuna remora, tu sei quello di cui hanno bisogno.» (p. 132)
In tempi antichi esistevano dei
riti molto simili, conosciuti con nomi differenti, diffusi tra i diversi popoli
del Mediterraneo attraverso i quali purificarsi e – allo stesso tempo –
mantenere la propria coesione interna: gli antichi popoli ebraici chiamavano il
giorno dell’espiazione kippur, quando il sommo sacerdote caricava tutti i
peccati del popolo su un capro e poi lo mandava nel deserto. Nell'antica Grecia
esistevano pratiche simili di purificazione, tramite l’espulsione di un
individuo “prescelto”, chiamato φαρμακός (pharmakos), per liberare la
comunità dai mali e dalle sventure. Sulle origini e il significato di
tali rituali si è molto discusso e gli studiosi sono ben lontani dal giungere
a una conclusione ma quel che si può sostenere, in buona sostanza, è che si
tratti di un rito simbolico –  e
necessario – destinato a scaricare l’aggressività collettiva su un emarginato,
colpevole di nulla, ma personificazione di ogni male. Quel che è paradossale è
che allontanandosi il reietto diventa salvatore, colui che con il suo
sacrificio permette il ritorno all’ordine. È questo Bertil Kras, il perfetto
capro espiatorio necessario a mantenere l’ordine sociale.
Henning Mankell, scomparso nel 2015 e noto per la
serie del commissario Wallander, che scrisse Il folle nel 1977 ed edito ora
in Italia da Marsilio, basandosi su fatti reali,
consegna l’inquietudine e la rapidità della degenerazione degli eventi non solo
al contenuto dell’opera ma anche, acutamente, alla sua forma: si alternano,
infatti, paragrafi narrati al presente, utili per mostrare l’immediatezza degli
eventi che travolgono Bertil e le conseguenti emozioni che ne scaturiscono, con
paragrafi narrati al passato, in tutte quelle sezioni in cui è la narrazione a
farla da padrone, traducendo, anche nella forma, una condizione psicologica di
follia e squilibrio che sfoca, anche per il lettore, quel che è stato con quel
che è. 
A quarantotto anni dalla prima
pubblicazione del romanzo, leggere Il folle oggi, nel 2025, risulta
ancora estremamente attuale perché punta l’attenzione, forse in modo leggermente
prolisso – questa l’unica pecca se si vuol proprio muovere una critica – , sull’importanza
di fare gruppo, unico vero antidoto all’indifferenza e alla solitudine in grado
di trasformare un uomo comune in un folle capro espiatorio.
«Dobbiamo restare uniti» ribatté Bertil. «Aiutarci per ritrovare la forza, una volta tocca a te, un’altra a me… Ci dimentichiamo troppo facilmente che ci siamo gli uni per gli altri, dimentichiamo la solidarietà.» (p. 430)
Corinna Angelucci

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