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Planare sulle cose dall'alto: la falsa leggerezza di "Nella carne" di David Szalay

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Nella carne
di David Szalay
Adelphi, ottobre 2025
 
Traduzione di Anna Rusconi
 
pp. 330
€ 20,00 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)

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A quindici anni si trasferisce con sua madre in una nuova città e ricomincia in una nuova scuola. Non è un’età facile per affrontare cambiamenti del genere – l’ordine sociale scolastico è già consolidato e lui ha qualche difficoltà a farsi degli amici. (p. 9)

Così prende le mosse Nella carne, quarto e ultimo romanzo di David Szalay, finalista al Man Booker Prize e vincitore del Gordon Burn Prize, che narra le alterne vicende di István, unico e svettante protagonista dell’intero romanzo, in cui tutte le altre figure, pur presenti, sembrano ridursi a semplici comparse. Ed è lo stesso Szalay, in un’intervista rilasciata al «The Guardian», a fornire la giusta chiave interpretativa dell’opera:

«Volevo mostrare in tutta franchezza cosa significa essere un corpo maschile nel mondo – un corpo con le sue esigenze da gestire, assecondare, soddisfare e non soddisfare, con tutto ciò che questo comporta.»

Sono scarne, se non addirittura nulle, le informazioni che abbiamo su quanto accade prima del nostro incontro con István, nel momento in cui lui, quindicenne, e sua madre si trasferiscono in un complesso di case popolari in una cittadina non meglio specificata dell’Ungheria. Quasi tutto – dagli anni in cui vive ai luoghi che abita – va desunto dalle poche parole che l’autore si lascia sfuggire, e anche i nomi di molti personaggi, pur importanti all’interno della storia, come quello della madre, non vengono mai pronunciati. Ma, dopotutto, è proprio questo che vuole l’autore: arrivare all’osso della questione, al suo nucleo centrale, sfrondando dalla narrazione tutto ciò che non sia necessario. Anche nei dialoghi – che prevalgono sulla narrazione – István rimane sempre impassibile, con il suo tipico, laconico «Okay» a chiusura di ogni discorso.

Nella nuova scuola incontra un ragazzo, il suo unico amico, con cui inizia timidamente a parlare di sesso e grazie al quale, in modo del tutto disastroso, ha il suo primo approccio con il mondo femminile. Ma il vero contatto con l’altro sesso avverrà solo poco tempo dopo, quando intraprenderà una relazione adulterina con una vicina di casa, una donna di 42 anni. Inizialmente il patto con la madre è aiutare la vicina a portare le buste della spesa, ma ben presto la donna mostra un interesse inappropriato nei confronti di István: si comincia con un bacio rubato a fior di labbra, che lui non racconta perché «non ha nessuno a cui raccontarlo. E anche se l’avesse, cosa potrebbe raccontare? Che ha baciato una vecchia e brutta come lei?» (p. 17), per arrivare – è quasi inutile specificarlo – ad avere con lei veri e propri rapporti sessuali. Dunque, anche in questo contesto, è il silenzio a prevalere perché «finché nessuno lo sa, è come se non stesse accadendo per davvero. La cosa esiste un po’ come esistono le sue fantasie, tipo una storia che si immagina e basta. Certe volte la sensazione è quella» (p. 30).

Ma man mano che la relazione prosegue István inizia a provare una strana sensazione: «in confronto il resto della giornata gli sembra finto. Come se fosse una realtà meno intensa. Senza importanza» (p. 33). E poi accade ciò che era naturale accadesse: István crede di amarla, impantanato in una sindrome di Stoccolma inevitabile, e glielo dice, scambiando per amore una risposta traumatica. La donna, allora, chiude la relazione, lasciando István in balia della solitudine, incapace di gestire le conseguenze e la portata delle sue azioni.

Lo ritroviamo anni dopo, ormai adulto, prima arruolato nell’esercito in Kuwait – dove vede morire il suo migliore amico tra le braccia e preda di una PTS scatenata dai sensi di colpa («ha scritto più volte che avrebbe dovuto fare di più per salvare la vita a Riki», dice la terapeuta» (p. 100)) – poi a Londra, dove lavora come buttafuori in un locale e, ancora una volta, coinvolto in una relazione adulterina, questa volta con Helen, moglie del suo datore di lavoro.

Con sullo sfondo la storia europea degli ultimi quarant’anni – dall’Ungheria della Guerra Fredda alla Londra bene, fino al ritorno in patria – seguiamo la parabola di un uomo in balia di forze che non può controllare, tanto esterne, come il crollo della Cortina di Ferro o lo scoppio della pandemia, quanto interne, quelle che governano il suo corpo – o meglio – la sua carne e che lo porteranno a invischiarsi in situazioni complesse e molto spesso spiacevoli.

Szalay ci regala un protagonista, István, in balia, sì, degli eventi e delle pulsioni, ma anche profondamente opaco: mai completamente leggibile, mai davvero esplicito. Szalay, costruendo una narrazione asciutta, lascia che siano i gesti e le sue scelte – spesso discutibili, ma sempre, indubbiamente, sentite nella carne – a delinearne il profilo.

Attraverso una superficialità solo apparente – che si manifesta nella facilità con cui István cambia vita e contesti – vengono in realtà messe in luce le tappe di una discesa nel disagio emotivo e relazionale di un uomo che, pur mutando città, mestieri, donne e ruoli, sembra ripetere sempre lo stesso schema, vittima di un loop ineluttabile che, chissà, affonda le radici proprio nelle sue prime, traumatiche esperienze.

Nella carne, allora, diventa metafora di ciò che accade quando un uomo viene lasciato nudo, con il proprio corpo e i propri desideri, spogliato di tutto ciò che è superfluo. Szalay ci consegna una storia che, mostrando cosa succede quando ci lasciamo guidare dalle nostre forze più primordiali, diventa – proprio per questo – necessaria.

Corinna Angelucci