di Ivy Low Litvinov
Ago Edizioni, settembre 2025
Traduzione di Susanna Marrelli Ricci
pp. 308
€ 20 (cartaceo)
Era una stanza piccola, squadrata, arredata in maniera confortevole e quasi sontuosa. C'era al centro un tavolo quadrato, coperto da una tovaglia bianca e chiaramente apparecchiato per una cena per due. La vittima era seduta con la testa poggiata su una scatola nera, il cui coperchio incernierato era aperto e quasi gli nascondeva il volto. Il manico di un pugnale, che gli sporgeva dal collo come la chiave di un giocattolo meccanico, rifletteva la luce di una lampada a sospensione. Una cinghia dall'altro lato della scatola rivelava che si trattava di un grammofono portatile. Accanto alla porta c'era uno scrittoio con la ribalta aperta, su cui si vedevano lettere, carte e registri in disordine. L'angolo della stanza era occupato da una stufa danese con le piastrelle bianche lucide. Una porta perpendicolare alla stanza conduceva con ogni probabilità alla camera da letto. (p. 23)
Lo dico subito: era da tempo che non mi divertivo così tanto a leggere un romanzo. Incredibile a dirsi, visto che tutto si può dire di me tranne che io sia un'accanita lettrice di gialli o libri polizieschi, eppure - anche da profana - posso affermare che questo è uno di quei casi in cui la storia, l'intreccio e lo stile dell'autrice sono così magnetici e magistrali da far ricredere anche il più incallito detrattore del genere.
Come dicevo, non leggo quasi mai libri gialli, ma per fare un paragone azzardato (però assolutamente calzante e utile al mio scopo) è un po' come dire: "guardo i film di Sherlock Holmes perché sono avvincenti e intrattenenti, anche se non ne capisco niente di misteri o risoluzioni di omicidi".
Ecco, La Canzone di Šaljapin dell'autrice anglo-russa Ivy Low Litvinov è un libro assolutamente irresistibile, un vero page turner che vi terrà incollati alle pagine, un po' come il pupillo di Doyle. Sin dalle primissime pagine, non sono riuscita a staccare il naso dalla storia, finendolo in poco meno di due giorni (e non per mio merito, ma per merito del testo) e divertendomi veramente tantissimo man mano che i misteri si infittivano e i personaggi (e potenziali assassini) aumentavano.
Ci troviamo a Mosca negli anni '20, nel cuore della città, vicino al Cremlino. Un uomo, Pavlov - in apparenza buono, apprezzato e benvoluto da tutti - viene ucciso in circostanze misteriose, ritrovato da una governante con un pugnale caucasico piantato nel collo e la testa riversa su un grammofono (indizio che si riconduce al titolo del libro).
Quasi subito le indagini del commissario distrettuale Nikulin e del fedele ispettore Janovitskij portano al Teatro Bol'šoj, ad accusare e incarcerare una delle ballerine di punta della compagnia, Tamara detta Dolidzej. Ovviamente, come ogni giallo che si rispetti, il primo sospettato non è mai (o quasi) il colpevole - troppo facile, troppo rapido - per cui, nonostante tutte le prove siano contro la fanciulla, persino il pugnale insanguinato che le appartiene, il lettore sa che la storia riserva altre sorprese.
Il commissario rimase in un qualche modo colpito dal tono di sfida con cui terminava la dichiarazione che considerò autentica. Ne rimase commosso più di quanto avrebbero potuto fare una supplica o un giuramento più sincero. Quell'impavida ragazzina, pensò, che lo avesse fatto o no, era stata accusata dalla società di un peccato capitale contro la società stessa: l'omicidio. E anziché piegarsi e implorare pietà agitava i pugni ai tutori della legge e diceva: «Nulla di ciò che può fare il vostro apparato contorto può rendermi un'assassina. Io, Tamara, vi sfido. Io sono quel che sono, e voi non mi potete cambiare, ma potete schiacciarmi». Che fosse un'assassina o no, dimostrava di essere coraggiosa, rimuginò il commissario. (p. 107)
A questo punto le indagini prendono due strade: una ufficiale - quella del commissario - e una ufficiosa, quella del giornalista più pagato di tutta Mosca, Itkin, un vero segugio, scaltro, ben infiltrato nelle maglie illegali della città, amico per la pelle di tutti i mascalzoni e monelli vagabondi che pullulano per le strade, per così dire i suoi "informatori preferiti". Sia lui che Nikulin cercheranno di scagionare Dolidzej, ognuno a modo proprio, perché sanno che lei non ha commesso quell'omicidio (pur essendone legata).
Verranno fuori altri sospettati - tra cui una manicurista, un dentista, un ballerino spasimante di Tamara che quella fatidica notte si trovava proprio nei pressi del luogo del delitto, dei vagabondi forse ladri - in una sequenza di piste e false tracce smentite una dopo l'altra, fino ad arrivare - come nel miglior libro giallo che si rispetti - alla risoluzione del caso proprio in extremis, portando alla ribalta uno di quei personaggi un po' snobbati, ignorati, la cui colpevolezza era in realtà sotto gli occhi di tutti dal primo momento.
Ho letto da qualche parte che questo viene definito un giallo politico e un po' è vero, anche se non lo definirei così in termini assoluti: l'identità della vittima, il fantomatico Pavlov, è dubbia. Un edonista, un ruffiano, un farfallone appassionato di ragazzine e balletto, ma forse anche uno degli ultimi esponenti di un gruppo reazionario chiamato "Aquila Bianca", talmente informato sui fatti e pericoloso che qualcuno pensa bene di mettere a tacere? O è solo un movente passionale frutto di gelosia?
Il testo percorre tutte le piste.
Ciò che mi ha sorpreso, a parte la trama avvincente, è stato lo stile dell'autrice: un'ironia affilata, grottesca, un po' velenosa forse, che prende in giro i "tipici" personaggi canonici che diventano topoi - il commissario integerrimo un po' sentimentale, l'ispettore-cane-fedele, la bionda svampita, la sfortunata fanciulla che riesce a risollevarsi brillantemente dalla cattiva sorte, lo spasimante accantonato, il colpevole che si crede nel giusto - e che riesce a costruire una storia drammatica ma al tempo stesso comica, di una comicità elegante, un po' d'antan (che, diciamocelo francamente, manca a tutti).
Mentre era impegnato nei preparativi, Itkin, che era rimasto a guardarsi nello specchio, appeso a un'altezza poco agevole per la sua piccola statura, o a dire il vero per quella di chiunque, perché il commissario seguiva lo strano principio adottato da tanta gente di appendere gli specchi più in alto del livello della testa e i quadri al di sopra di quello degli occhi, all'improvviso esclamò: «Allora, Nikulin, mi dica la verità, da buon amico: come tipo di uomo sono così tanto brutto?».«Sì, Itkin» rispose il commissario senza farci caso.Posò sul tavolino rotondo una tazza, un piattino e un bicchiere: il suo unico tentativo di comporre un servizio da tè.«Secondo lei sto diventando calvo?» disse di li a poco, versando il tè.«Sì, Nikulin» disse il giornalista.Sorseggiarono il tè in un silenzio malinconico, interrotto per primo da Itkin.«Certo essere così basso peggiora le cose, è ovvio» affermò. «Ci sono donne a cui piacciono gli uomini brutti, li preferiscono, ma non li accettano con le gambe così corte come le mie».Nikulin spinse in silenzio la bottiglia di vodka verso di lui. (pp. 270-271)
Per questo motivo ho affermato che mi ricorda Conan Doyle, nella figura immaginaria - uscita dalla sua penna - di Sherlock Holmes, soprattutto nella trasposizione cinematografica di Robert Downey Jr.: stessa ironia, stessi personaggi magnetici, stesso ritmo - veloce, incalzante - e, in generale, molte figure letterarie di cui, a libro chiuso, si sente la mancanza.
Un altro autore a cui l'autrice mi ha fatto pensare è Friedrich Dürrenmatt col suo La panne. Se non lo avete letto ve lo consiglio, subito dopo Litvinov.
Incoraggio vivamente chi guarda con scetticismo alla letteratura di genere poliziesco o gialla a dare una possibilità a questo romanzo. Immagino che vi farà ricredere. In qualsiasi caso, anche perché li ho letti tutti, è difficile che i libri di Ago Edizioni deludano.
Deborah D'Addetta

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