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Il mito delle origini e l’epica della costruzione “Il cerchio dei giorni", di Ken Follett

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Il cerchio dei giorni
di Ken Follett 
Mondadori, 23 settembre 2025

Traduzione di Anna Maria Raffo

pp. 704
€ 27 (cartaceo) 
€ 18,99 (ebook)

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Con Il cerchio dei giorni, Ken Follett torna a interrogare la storia profonda dell’umanità, quella che precede ogni scrittura e ogni civiltà, per raccontare l’impulso primordiale che spinge l’uomo a costruire, a lasciare un segno, a innalzare pietra su pietra contro la caducità del tempo. Dopo le cattedrali di I pilastri della Terra e i monasteri di Fu sera e fu mattina, lo scrittore gallese sposta la sua ambizione narrativa ancora più indietro, verso un’epoca in cui non esistono ancora regni né imperi, ma solo tribù, fede e necessità. L’impresa, questa volta, è quella della nascita di Stonehenge, il monumento che da millenni sfida le leggi della gravità e del mistero. 

Follett affronta uno dei più grandi enigmi archeologici del mondo: chi costruì Stonehenge e perché, con lo sguardo dell’umanista e la penna dell’epico narratore. Non c’è qui la trama intrisa di intrighi politici o di lotte dinastiche che ha reso celebre la saga di Kingsbridge, ma il respiro resta quello di una grande epopea collettiva. La sua prosa, misurata e diretta, recupera il ritmo della narrazione orale, restituendo la sensazione di un racconto fondativo: una leggenda che si fa storia, un rito che diventa architettura. 

Al centro, il giovane Seft, cavatore di selce e figlio di un padre violento, incarna il volto più terreno e fragile del romanzo. È l’uomo che plasma la materia, che porta il peso del lavoro e del destino. Accanto a lui, la sacerdotessa Joia, carismatica e visionaria, crede nella possibilità dell’impossibile: erigere un cerchio di pietre più grande di ogni altro, per celebrare il legame tra cielo e terra, vita e morte, uomini e dèi. La loro alleanza, fatta di fede, amore e fatica, dà forma a un racconto in cui la costruzione di un monumento diventa metafora dell’edificazione di un’umanità nuova. 

Già dalle prime pagine, Follett ricostruisce con finezza il tessuto sociale e religioso della comunità: 

La gente si recava al monumento per le cerimonie che avevano luogo quattro volte all’anno, ma l’incontro di così tante persone provenienti da ogni dove era un’occasione importante e tutti portavano con sé beni da scambiare. Alcuni stavano già esponendo la loro merce. Sapevano che era proibito entrare nel cerchio sacro, e privilegiavano la zona vicino all’ingresso, tenendosi alla larga dalle case delle sacerdotesse. (p. 15) 

La scena, descritta con l’accuratezza di un etnografo, svela il duplice volto del romanzo: quello del rito e quello del mercato, del sacro e del profano. Il “cerchio sacro” è, insieme, centro religioso e cuore economico, punto di incontro e di separazione tra chi governa e chi lavora. Follett mostra qui, con grande equilibrio, come la nascita della civiltà sia anche la nascita delle gerarchie, della proprietà, della distanza tra potere e popolo. 

L’autore orchestra con consueta maestria le voci della coralità. La sua struttura narrativa alterna episodi di violenza e momenti di pura contemplazione, facendo convivere l’epos e la cronaca. Le descrizioni dei rituali, delle stagioni e dei commerci restituiscono la vita quotidiana dell’età del bronzo con una cura che, pur romanzesca, si fonda su un rigore documentario. Tuttavia, la precisione serve alla tensione emotiva, non all’erudizione. L’elemento religioso, incarnato nel culto del sole e nei gesti sacrificali delle sacerdotesse, attraversa il romanzo come un canto arcaico, sempre in bilico tra spiritualità e superstizione. 

Il tema della costruzione è, come spesso accade in Follett, al centro della narrazione. Ma qui non è solo l’edificazione di un edificio: è la nascita stessa dell’idea di civiltà. Ogni pietra sollevata da Seft e dai suoi compagni diventa un atto di fede, un tentativo di resistere al caos. L’autore coglie la potenza simbolica del gesto umano che dà ordine alla natura, un gesto che, nei secoli, tornerà con le cattedrali gotiche, i ponti, i grattacieli. In questo senso, Il cerchio dei giorni è una sorta di prequel ideale non solo di Kingsbridge, ma dell’intera narrativa storica occidentale: la genesi della nostra fame di costruire, di creare senso attraverso la materia.

All’interno di questa grande narrazione corale, Follett inserisce ritratti femminili complessi. Tra questi, spicca Joia, la sacerdotessa, opposta alla figura di Ello, anziana e rigida depositaria dell’ordine:

Joia non sapeva come reagire davanti a quel crollo. Non aveva problemi a discutere con Ello, ma proprio non ce la faceva a provare compassione per lei. […] Ello si comportava così da decenni e non sarebbe cambiata solo perché glielo diceva lei. (p. 249)

In questo passaggio, Follett abbandona la grandiosità epica per concentrarsi sulla psicologia. La costruzione di Stonehenge si riflette nella costruzione dei caratteri: le generazioni si scontrano, i ruoli si consumano, e il tempo si accartoccia su se stesso. La giovane Joia incarna il bisogno di rinnovamento spirituale, mentre Ello rappresenta il peso delle tradizioni ormai inerti. Anche qui il cerchio ritorna come simbolo: ciò che si ripete, ciò che si consuma, ciò che deve essere rifondato. 

Sul piano stilistico, Follett adotta una lingua più sobria rispetto ai suoi romanzi più recenti. Le frasi brevi e la sintassi lineare amplificano la sensazione di antichità, come se il narratore volesse rispettare la voce di un tempo remoto. Tuttavia, la linearità non è sinonimo di semplicità: dietro la chiarezza apparente si muove una complessa rete di simboli. Il cerchio, forma perfetta e infinita, diventa la figura del tempo che ritorna, del sacrificio che si rinnova, dell’equilibrio precario tra distruzione e rinascita. È una geometria sacra che Follett traduce in architettura narrativa, costruendo un romanzo che si regge su cicli, echi, ripetizioni, come se la struttura stessa imitasse la rotazione delle stagioni e dei pianeti. 

Trovarono Seft e Tem intenti a segnare il confine dell’area da disboscare. Seft aveva piantato dei paletti nel terreno mentre Tea scavava un solco poco profondo tra i pali per definire la linea. Avevano fatto in fretta ed erano ormai vicini al fiume. (p. 387) 

Qui la scena di lavoro, quasi priva di pathos, diventa l’immagine più eloquente del romanzo: definire un confine significa dare forma al mondo, separare la selva dal tempio, il caos dall’ordine. Follett esprime nella semplicità di un gesto manuale l’intera filosofia del suo libro: costruire è misurare, incidere, disegnare la linea che trasforma la natura in civiltà

Rispetto ai precedenti romanzi, Il cerchio dei giorni sorprende per la sua capacità di fondere epica e intimità. Se I pilastri della Terra raccontava la costruzione di una fede collettiva e Fu sera e fu mattina indagava la nascita della conoscenza, qui l’autore va oltre: cerca le origini della meraviglia, il momento in cui l’uomo per la prima volta ha guardato il cielo e ha deciso di imitarne la perfezione.

Il cerchio dei giorni è un romanzo sulla resistenza dell’uomo al nulla, sulle mani che alzano pietre contro l’oblio. Follett non scrive solo una storia dell’età del bronzo: scrive la nostra storia, quella che in ogni epoca ci spinge a costruire nonostante tutto, una casa, una fede, un sogno. Quando, alla fine, il sole sorge dietro il cerchio di pietre, il lettore capisce che non si tratta solo di un monumento: è la prima cattedrale del mondo, la prima prova che la speranza può avere forma, peso e ombra. E che il mistero, come la pietra, può restare eterno.

Alessia Alfonsi