Traduzione di Bruno Arpaia
Può un libro essere tanto incisivo da disturbare per ciò che costringe a guardare di noi stessi? È il dilemma che mi solleva la lettura dell’ultimo lavoro di Fernando Aramburu, già vincitore del Premio Strega Europeo 2018 con Patria (Guanda, 2017). Mi riferisco alla raccolta di racconti Ultima notte da poveri, disponibile da poco in traduzione italiana per Guanda Editore.
Per intenderci meglio, mi affiderò a una metafora. Una delle caratteristiche che a Roma rendevano efficaci le commedie di Plauto, alla fine del III secolo a.C., era il fatto che gli spettatori non vedevano riflessa la loro realtà, bensì un mondo rovesciato: schiavi che si prendono gioco dei padroni; giovani che sfidano l’autorità paterna; vecchi in preda a infatuazioni adolescenziali; cortigiane che amministrano il denaro; e via discorrendo. Tutto era percepito come un ludus, “un gioco”, secondo un principio incontestabile che rendeva possibile il riso: “Quelli lì, mica siamo noi; noi non siamo così”. Il rovesciamento, in altre parole, era indispensabile affinché i romani riflettessero sì sui loro vizi e sulla loro società, ma senza per questo sentirsi direttamente chiamati in causa, e dunque offendersi. La disidentificazione da ciò che andava in scena permetteva di accogliere il messaggio satirico mantenendo, comunque, il sorriso sulle labbra.
E qui veniamo ad Aramburu. Se le irriverenti commedie plautine “proteggevano” l’ego dei romani con la maschera del rovesciamento, i racconti dello scrittore spagnolo ci trovano, per contro, nudi e forse impreparati a guardare le nostre contraddizioni per quello che sono: tentativi mancati di dichiararci impeccabili agli occhi del mondo. Aramburu esibisce con sfrontatezza e senza indulgenza l’indifferenza che domina nella vita quotidiana dei nostri tempi. Lo fa in modo provocatoriamente crudo, disincantato, a tratti menefreghista. Se questa scelta sia da ritenersi, alla luce del risultato, geniale o talmente ardita da non convincere fino in fondo, ciò dipende molto dalla tipologia, dall’attitudine e dalla sensibilità di ciascun lettore.
Il materiale affrontato è consapevolmente divisivo, spesso intimorisce proprio per l’impossibilità di essere sublimato in un’unica rassicurante risposta. Questo si verifica in Dilemma, dove un uomo, assorto nel rimuginio sul rapporto con la figlia e di fronte a un incidente stradale inevitabile, è costretto a scegliere se investire un bambino o un anziano.
Pensandoci freddamente, per l’umanità la morte del bambino rappresentava una perdita più grande. Per i genitori, neanche a parlarne. Una tragedia immensa. L’anziano, invece, non avrebbe fatto sprofondare nessuno nella disperazione con la sua morte rapida. A giudicare dalle apparenze, non doveva essere lontano dal compiere novant’anni. A quell’età non si hanno più i genitori. Al massimo dei figli, trasformati di colpo in eredi. […] È pur vero che il bambino non è utile alla società, ma può esserlo o lo sarà in futuro. Si suppone che l’anziano sia stato utile in altri tempi. Qualche mestiere deve averlo fatto nel corso della sua lunga vita. Comunque fosse, non era più utile né lo sarebbe stato mai più. Detto in altre parole, per la Natura e per la società era un intralcio. (pp. 42-43)
Qui il cortocircuito morale è evidente: quando siamo costretti a scegliere, quando persino la non-scelta diventa una scelta, come ci orientiamo? Quale valore attribuiamo alla vita altrui e in base a quale etica?
Non meno disturbante è l’atmosfera del racconto Il suicidio di Richi Pardal, dove ritorna il tema del suicidio annunciato attorno a cui ruotava anche il precedente romanzo I rondoni (Guanda, 2021). Il desiderio dichiarato di Richi Pardal di togliersi la vita fa però qui da sfondo alla tragicommedia inscenata dai suoi conoscenti, a partire dalla stessa famiglia. Con indifferenza e agghiacciante apatia, tutti appaiono grottescamente incuriositi dall’attesa del gesto estremo, al punto da pagare un biglietto di quindici euro per assistervi.
Guardò il marito. Il marito guardava a terra.
«Sei venuto a dirmi qualcosa?»
Richi Pardal non reagì.
«Che ti impiccherai, no? In tutta Móstoles non si parla d’altro. Stamattina, in macelleria, la macellaia: E allora, quando si suicida tuo marito? Non ho saputo risponderle. »
«Ormai manca poco. »
«Grazie per l’informazione. Altro? Sto leggendo. » (p. 97)
Per un’anteprima esaustiva che non riveli troppo, siano sufficienti solo altri due esempi. Nel racconto Klaus è messa a fuoco con lucidità l’inadeguatezza di due coniugi nel gestire la notizia del cancro del loro vicino. Radicati in una routine composta ed equilibrata, sono divisi tra un affettato dovere di mostrare partecipazione e la reale inclinazione a mantenere il più possibile le distanze, angosciati dalla lenta consunzione di Klaus e ripugnati da un timore puerile di venirne contagiati. Infine, nel racconto Uomo caduto, dei passanti si ritrovano riuniti attorno a un vecchio che non è in grado di alzarsi da solo dopo essere caduto; tutti lo guardano e nessuno interviene. Dopo che due fratelli si fanno spazio tra la folla per sollevarlo, intervengono le autorità:
«Allontanatevi» ordinò con asprezza uno dei due uomini in nero. «Non ve l’hanno detto che è tassativamente vietato aiutare? » (p. 230)
Questa breve rassegna su alcuni dei più emblematici tra i quattordici testi che compongono Ultima notte da poveri rende ora forse più chiaro il paragone iniziale con la commedia latina. A dominare, nel libro di Aramburu, è una spietata rappresentazione di alcuni aspetti-ombra del mondo odierno per quello che è: raggomitolato attorno all’io e al mio; indifferente di fronte al dolore altrui; incapace di ammettere la propria fragilità, taciuta o negata in virtù di un senso di vergogna, di colpa, o di tutte e due. Mi chiedo quanti, tra i caregiver che si trovano ad assistere quotidianamente familiari terminali, non abbiano gridato dentro di non farcela più, perché mentalmente esausti. Mi domando quanti, inermi di fronte alla sofferenza di un caro, non abbiano desiderato scomparire e sottrarsi a ogni contatto, terrorizzati dall’idea di fronteggiare la propria incapacità. Mi chiedo, infine, quanti, almeno una volta nella giornata, non abbiano tirato dritto di fronte a un uomo in difficoltà per la strada perché “non c’è tempo, la vita incalza”.
Aramburu con i suoi racconti – alcuni più riusciti di altri – da un lato mette nero su bianco le ombre di cui tutti proviamo un po’ vergogna, rivelandoci ai nostri occhi meno perfetti di quanto saremmo portati a credere; dall’altro, in maniera tanto cruda da disturbare, estremizza le derive a cui è giunta la concezione individualistica della vita, che è il modello dominante: l’assenza di ogni interesse per tutto ciò che è collocato al di fuori di noi stessi. In altre parole, umanità e dis-umanità prendono il lettore a braccetto, stimolando una riflessione su quanto di noi va riconosciuto e accolto e quanto, invece, va trasceso, perché in opposizione con l’idea stessa di essere umano.
Sta di
fatto che il cucchiaino amaro di Aramburu è portato alla bocca senza neanche
una punta di miele, cosa che alle volte rende la lettura faticosa. Il tono, nel complesso, è cupo, sospeso, gravido di ambiguità non risolte.
Lo stile asseconda questa intenzione comunicativa: asciutto, incalzante e privo
di qualsiasi ridondanza, enfatizza la crudezza scarna e disincantata dei
contenuti. Siamo pronti a rifletterci nei personaggi di Aramburu? Siamo
disposti a mettere in discussione alcuni pilastri della società contemporanea
per ritagliare un nuovo spazio all’umanità potenziale in ciascuno di noi? Siamo
in grado di andare oltre la freddezza, il cinismo e l’apatia dei personaggi di
questi racconti senza negare a priori quella mediocrità descritta che in fondo ci appartiene?
Sono domande sospese, come i racconti di Aramburu. Forse è questo, il vero disturbo: non tanto giudicare i comportamenti dei protagonisti, quanto smettere di giustificare noi stessi. Quel che è sicuro, è che Fernando Aramburu si conferma, in un modo o nell’altro, voce autorevole, coraggiosa e dirompente in un mercato editoriale spesso scontato e ripetitivo.
Giulia Tardio
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