Un bambino rimasto orfano viene messo su un treno che dalla Virginia lo porterà in Nebraska, alla fattoria dei nonni; sullo stesso treno, in una «carrozza di immigrati», una bambina di poco più grande, con «due begli occhioni castani» le cui uniche parole in inglese che conosce sono “Noi andiamo a Black Hawk, Nebraska!”.
Sentii parlare per la prima volta di Ántonia durante quello che mi sembrò un viaggio interminabile attraverso la grande pianura centrale del Nordamerica. Avevo dieci anni a quel tempo; nel giro di un anno avevo perso mio padre e mia madre, e i miei parenti in Virginia mi stavano mandando dai nonni, che vivevano in Nebraska. (incipit, p. 19)
Sono diretti nella stessa cittadina e, di lì a poco, le loro strade si intrecceranno in modo indissolubile, nonostante il tempo, la distanza, le differenti opportunità e le scelte. Jim Burden e Ántonia si ritroveranno vicini di casa tra le distese sconfinate del Nebraska, diventeranno amici, cresceranno, vivranno dolori, avventure, separazioni, a legarli un profondo affetto che durerà tutta la vita. Intorno a loro un microcosmo di uomini e donne, famiglie locali, immigrati svedesi, boemi (come la famiglia di Ántonia, appunto), tedeschi, norvegesi: agricoltori che vivono sulla stessa terra da generazioni o immigrati che hanno lasciato dietro di sé ogni cosa e tutto quello che conoscono per tentare di conquistarsi un poco di pace, genitori che non parlano una parola di inglese, figli che lavorano duramente nei campi o provano a intraprendere nuove strade, cogliere nuove opportunità.
È questa, in estrema sintesi, la trama di La mia Ántonia, il capolavoro di Willa Cather che Feltrinelli riporta in libreria nella magnifica traduzione di Monica Pareschi, per quella che ci auguriamo essere una nuova attenzione nei confronti di un'autrice la cui opera in Italia è arrivata in modo troppo frammentario, diluito, privo finora dell'adeguato interesse critico che merita e che l'editore milanese pare volerle restituire. Il romanzo è ben più della sua sintesi, della sua trama che forse dopotutto nemmeno c’è, non nel senso canonico di trama romanzesca: una narrazione che rincorre il filo della memoria, costruita per quadri, episodica, dallo sguardo ampio. Che cos’è, dunque, La mia Ántonia e perché ha ancora valore leggere questo libro pubblicato per la prima volta nel 1918? Le ragioni sono molteplici e hanno a che fare tanto con le tematiche trattate quanto con le scelte narrative e il solco entro cui si colloca.
Romanzo di formazione, ma anche ascrivibile al filone della narrativa di frontiera e rurale, l’opera di Cather dialoga con le narrazioni di Sarah Orne Jewett e Dorothy Johnson per arrivare fino alla contemporaneità: Butcher’s Crossing di John Williams, Sentieri selvaggi di Alan Le May, Lonesome Dove di Larry McMurtry, certe narrazioni di Ron Rash, Chris Offutt, solo per citare una minima parte della narrativa western più letteraria. Una tradizione che affonda le radici appunto nei romanzi e nei racconti delle tre signore poc’anzi citate e di cui La mia Ántonia rappresenta un caso ancora particolare, di cui una seppur piccola eco mi pare riscontrabile perfino nel capolavoro di Steinbeck, Furore, l’epopea dell’immigrato, il rapporto con la terra. Ma restiamo sul romanzo di Cather, di cui Pareschi ha saputo rendere le sfumature di una lingua immaginifica e scarna insieme, tra passaggi di una bellezza struggente, dialoghi di ottima verosimiglianza, un sistema di immagini fondato sul mondo rurale e si confronta con un narratore, Jim, in prima persona, inaffidabile e parziale come lo è sempre la prima persona, nostalgico nel rievocare, ormai adulto, gli anni giovanili e la profondità delle esperienze e degli incontri che ne hanno segnato la vita a venire.
L’espediente della narrazione è consueto – o meglio, lo era un tempo – , un manoscritto messo nelle mani di una misteriosa autrice a cui Jim consegna la storia della sua vita o, per meglio dire, della sua Ántonia; quello che incontriamo nella prefazione originale al testo del 1918 – e che Feltrinelli in questa edizione sceglie appunto di reintegrare al posto della versione rivista e modificata da Cather a partire dal 1926 – è dunque un uomo adulto e di un certo successo, gravato dal peso di un matrimonio non particolarmente felice, che durante un viaggio d’affari in treno incontra la scrittrice voce narrante dell’introduzione, come lui cresciuta a Black Hawk ed entrambi residenti da tempo a New York dove si frequentano non troppo spesso.
È durante quel viaggio che entrambi ricordando l’infanzia comune evocano la figura di Ántonia e il desiderio di scrivere di lei, raccontarne la propria versione. Di lì a poco Jim Burden consegnerà dunque alla scrittrice un vero e proprio manoscritto e ciò che leggiamo sono appunto le parole di Jim. Con questo espediente narrativo Cather sceglie dunque di stringere un patto particolare con il lettore e farlo entrare nella storia guidato dallo sguardo di Jim, dai suoi sentimenti del presente, dalla nostalgia che lo accompagna fin dalle premesse.
Uno sguardo parziale e soggettivo, dunque, ma per questa sua natura così adatto a raccontare la propria storia e quella di Ántonia, le stagioni che attraversano, il tempo della crescita e del cambiamento, mentre le pianure e il mondo intorno cambiano a loro volta. Ecco, le pianure, il Nebraska, sono accanto ad Ántonia il grande protagonista del romanzo: non semplice sfondo, ambiente in cui si svolge la vicenda ma parte integrante della stessa, dell’identità di ognuno di loro da quando, bambini, vi mettono piede per la prima volta.
Tutti gli anni che sono passati non hanno affievolito il ricordo che ho di quel primo, magnifico autunno. Quella nuova terra si spalancava davanti a me: non c’erano steccati a quei tempi, e potevo scegliere da che parte andare sull’altipiano erboso, fiducioso che il pony mi avrebbe riportato a casa. (p. 38)
Difficile non leggere in quel primo sguardo di Jim quello di Cather stessa, arrivata anche lei ancora bambina – ma fortunatamente insieme ai suoi genitori – dalla Virginia alle distese sconfinate del Nebraska nella fattoria dei nonni. Quel primo sguardo sulla terra resta indelebile nella memoria del narratore e gli occhi torneranno ancora e ancora a raccontarne i colori, il passaggio delle stagioni, la bellezza e la brutalità, il lavoro, il cambiamento. La voce di Pareschi si fonde a quella di Cather e ne restituisce la magnificenza delle immagini, la sensorialità, il gusto del ritmo di cui ogni frase è intrisa. La lingua di Cather è elegante, la parola scelta con cura, fatta di mestiere e sentimento, avvinghia il lettore alla pagina coinvolgendo tutti i suoi sensi:
Luglio si annunciò con quel caldo afoso e lucente che fa delle pianure del Nebraska il miglior granaio del mondo. Era come se udissimo il rumore del granturco che cresceva durante la notte; sotto le stelle si sentiva un crepitio sommesso nei campi odorosi e madidi, dove i gambi impennacchiati si ergevano verdi e succulenti. (p. 123)
La lingua si fa incendiaria quando si lega alla pianura, all’osservazione della campagna e delle vite che la popolano, la narrazione che è tanto nello sguardo quanto nell’udito, il lirismo mai strabordante ma sempre ricondotto alla terra, il sistema di immagini consolidato, la parola ricercata con cura. Passaggi di intensità struggente che fanno essi stessi la storia e dicono tutto del sentimento che racchiudono, dei dialoghi privi di parole, dei rapporti che intercorrono tra i personaggi.
Rimanemmo lì seduti lasciando scorrere lo sguardo sulla campagna, contemplando il sole che calava. L’erba ripiegata intorno a noi era in fiamme adesso. La corteccia delle querce rosseggiava come rame. C’era un barbaglio dorato sul fiume bruno. Le lingue di sabbia brillavano come vetro nella corrente, e un tremolio di luce nel folto dei salici dava l’impressione che mille fiammelle danzassero tra gli alberi. Il vento calò e l’aria si fece immota. Dal calanco arrivava il tubare luttuoso di un colombaccio, e dai cespugli in lontananza si levò lo stridio di una civetta. Le ragazze sedevano fiacche, addossate l’una all’altra. Le lunghe dita del sole sfioravano la fronte di ciascuna. (p. 209)
Il mondo rurale, le pianure e il lavoro agricolo, dunque, si intrecciano alle vite delle persone che abitano tali luoghi, ne influenzano le scelte, i movimenti, i corpi, i desideri. Dicevo che il romanzo di Cather è popolato di molte storie, un microcosmo di umanità cui ci facciamo ora più vicini ora la sorvoliamo soltanto, la cui intensità non è data dalla permanenza sulla pagina. Mr Shimerda, il padre di Ántonia, con la sua presenza fisica attraversa brevemente la storia eppure ne permea ogni pagina, anche quando non ci sarà più, e il sentimento di solitudine e spaesamento che porta con sé attraversa gli anni e molte delle vite di chi resta.
Tra i perni fondamentali del romanzo, il discorso sul migrante e la determinazione di un’identità nazionale sono senza dubbio tra gli aspetti più stratificati e che si rinnovano nel tempo con altre sfumature e urgenze forse, ma mai venuti meno. La famiglia di Ántonia arrivata dalla Boemia praticamente priva di mezzi e finita nelle mani dell’usuario di Black Hawk è la storia di tante altre famiglie di immigrati e, insieme a quel microcosmo di vite esuli narrate da Cather è il mezzo per raccontare la tensione costante fra radici, appartenenza, integrazione. La posizione di Cather sul tema identitario è peraltro molto interessante: in una nazione di pionieri, fondata sul mito della conquista dell’Ovest, culture che si fondano dando forma, nel tempo, a quel melting pot che riconosciamo come “americano”, Cather rivendica la necessità di una convivenza tra culture differenti che non miri a disintegrare le radici a favore di «una nuova identità americana di stampo anglosassone» (dalla postfazione di Sara Antonelli, p. 335), ponendosi in opposizione perciò con la standardizzazione culturale imperante. Ecco, dunque, che Ántonia diventa il simbolo di questo ideale, profondamente legate alle proprie origini e all’eredità paterna che sente di dover raccogliere, ma ancorata anche alla terra del Nebraska, nell’ostinata lotta per la sopravvivenza. Un’anima che comprende perciò tanto le radici boeme quanto la vita americana, e che si completa nel riappropriarsi, molti anni dopo, della lingua d’origine. Un tema senza dubbio mai esaurito e profondamente attuale, di cui Cather ci indica una delle strade possibili e, di questi tempi, sentiero prezioso per costruire realtà di pace, integrazione e convivenza.
Al centro della narrazione, dunque, c’è lei, in ogni piega, in ogni pensiero: Ántonia, quello che è e che rappresenta, fatta di carne e sangue, personaggio di una sensualità animalesca. Il desiderio attraversa la pagina, inespresso ma non per questo meno potente. Ma ci sono anche i legami umani che dalla casa dei Burden tessono una rete che attraversa le pianure e i campi, arriva alla città, percorre le ferrovie del Paese e un senso di comunità andato scomparendo. Attraversa molte vite, molte storie su cui si sofferma giusto il tempo necessario, qualcuna profondamente intrisa di dolore, altre piene di opportunità e desiderio di riscatto: pionieri, immigrati, ragazzi, donne e uomini capitati su quella terra per scelta o per nascita su cui lo sguardo di Cather si posa, reminiscenza della sua prima vita da giornalista – eccolo qui, ancora un piccolo punto di contatto con Furore. E si posa soprattutto su quel momento di passaggio dall’infanzia all’età adulta, le scelte da prendere, le inquietudini che attraversano la pagina e determineranno l’avvenire.
Ma ogni volta che la mia coscienza si animava, tutti quegli amici di un tempo si animavano con lei, e in un modo o nell’altro mi accompagnavano in ogni nuova esperienza. Erano così vivi in me che non mi soffermavo neppure a domandarmi se lo fossero, chissà dove, e come. (p. 223)
Lo sguardo scorre su quelle vite e le pianure, lungo la rete delle ferrovie per poi, alla fine, fare ritorno lì, al luogo dove tutto è iniziato e dove tutto è stato, in una sorta di cerchio che si chiude e dove, attraverso un'immagine bellissima e potente, passato e presente sembrano farsi per un attimo vicini, le ombre di Ántonia e Jim bambini a rincorrersi sulla terra dove ora camminano come adulti. Lascio al testo, me lo concederete stavolta, il compito di chiudere queste riflessioni – parziali, incapaci di racchiudere davvero tutto il senso di questo romanzo – , a Cather e a Pareschi con lei, con quella che forse è l’immagine più potente di La mia Ántonia, la misura di tutte le cose.
Proprio quando il bordo inferiore del disco rosso si appoggiò all’orizzonte, sulla faccia del sole apparve un’enorme sagoma nera. Balzammo in piedi, aguzzando gli occhi in quella direzione. Un momento dopo ci rendemmo conto di che cosa fosse. In qualche fattoria sull’altipiano, qualcuno aveva lasciato un aratro nel campo. Il sole stava tramontando proprio alle sue spalle. Ingigantito nella distanza dalla luce orizzontale, si stagliava contro il sole, esattamente circoscritto dentro la sua circonferenza: il timone, l’orecchio e il vomere neri contro il rosso incandescente. Eccolo, in proporzioni eroiche, un’immagine iscritta nel sole. (p. 209)
Debora Lambruschini
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