Qualcosa che brilla
di Michela Marzano
Rizzoli, settembre 2025
pp. 283
€ 19,00 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)
Due ragazze si abbracciano, o forse si sostengono a vicenda, sulla copertina
bianca del nuovo romanzo di Michela Marzano. Le nubi che attraversano il corpo
dell’una, umbratile e notturna, si allungano nel radioso tramonto che fa
rifulgere l’altra. L’immagine, che già racconta di una condivisione di buio e luce, di un’oscurità che si affronta prima
di tutto stando insieme, anticipa quasi programmaticamente i contenuti del
volume, ripresi nell’epigrafe tratta da Banana Yoshimoto:
Nel mio petto ogni giorno c'è qualcosa che brilla rosso e fulgente, come una fiamma che brucia, e anche se qualcuno che passa mi guarda dall'esterno non la vedrà né io farò nulla perché la possa vedere. Io sono fatta di un enigma incandescente. Nascondo un mistero enorme. (p. 13)
Ciascuno di noi nasconde “qualcosa che
brilla”: può essere una fiamma che
alimenta, o un fuoco che brucia,
e i protagonisti dell’opera di Marzano spesso non riescono a decifrarne la natura
e se ne lasciano sopraffare. Sono giovani e spaesati, in cerca di risposte,
colti nel momento della massima difficoltà emotiva. Si incontrano tutti in
occasione della terapia di gruppo
nel Centro medico-psico-educativo del dottor Rolli. “La Ginestra” non è un
luogo di cura come un altro, e il riferimento esplicito a Leopardi ne dichiara
l’intenzione: l’essere umano è in grado
di resistere anche nelle circostanze più dure e aspre, di trovare la forza per adattarsi e
sopravvivere, di fare di sé stesso l’elemento radioso in mezzo alla cenere.
Anche lo
psichiatra, però, ha dovuto fare molta strada per arrivare a questa
consapevolezza, partendo dall’Ospedale di Padova dove molti anni prima lavorava
come delfino del primario, l’illustre professor Quadro. Tutto ciò che
inizialmente gli era parso rassicurante (la possibilità di etichettare ogni disturbo, di incasellare
entro una cornice rigida i sintomi e
di prevedere per ogni condizione una terapia chiara e univoca) a un
tratto aveva iniziato ad andargli stretto, a sembrargli inadeguato ad accogliere la complessità del paziente, e ancor più
dell’essere umano che questi era. Una prima crepa, da cui se ne erano diramate
molte altre, aveva fatto vacillare l’intero
edificio delle sue certezze e gli aveva rivelato ciò che cercava di
nascondere anche a se stesso: il fatto che occuparsi del dolore degli altri era
un modo per non guardare il proprio, un tentativo di nascondere il disordine
interiore sotto al tappeto della routine.
Da qui, forte e
inarrestabile, il desiderio di vivere in
modo diverso, di costruire qualcosa di radicalmente nuovo. Se la clinica
era il luogo in cui tutto doveva essere medicalizzato («ogni reazione veniva registrata come un sintomo di follia: piangere,
ridere, persino innervosirsi quando un'infermiera ti vietava di fumare una
sigaretta in giardino», p. 52), lui avrebbe messo in piedi una struttura in
grado di prendere in carico
integralmente i ragazzi fragili, di occuparsi non solo della risoluzione
dei sintomi, ma della radice del male, adottando un approccio
interdisciplinare, più sensibile e attento, basato sulla condivisione di storie e parole. È qui che lo raggiunge anche
Arianna, ex paziente e ora terapeuta, che con lui condivide lo sguardo sulla adolescenza come momento
delicato e incandescente, da maneggiare con estrema attenzione per non fare
danni irreparabili.
A fare da
contraltare a una scrittura piana e spesso dialogata, il romanzo di Marzano
presenta una struttura variegata, con
un’alternanza di voci e punti di vista: i ragazzi e le ragazze accolti alla
Ginestra vengono guardati prima dall’esterno, attraverso gli occhi dei
genitori, spesso incapaci di comprenderli, o quelli più attenti e comprensivi
del dottor Rolli, durante gli incontri conoscitivi; successivamente
dall’interno, in capitoli in cui sono loro a prendere la parola e a narrarsi in
prima persona. A questi capitoli se ne alternano altri che rappresentano le
sedute di gruppo, e altri ancora in cui la prospettiva si focalizza sullo
psichiatra e i suoi collaboratori, in particolare Arianna.
Tutti, infatti, meritano di
essere osservati, visti davvero. Tutti commettono errori, si interrogano
sulle proprie fragilità, cercano di capire come poterle far diventare punti di
forza. I terapeuti hanno bisogno di supervisione per non soccombere ai dubbi
che inevitabilmente emergono di fronte alla responsabilità di una professione che tende a invadere, con il suo
carico di pensieri, anche il privato. Il dottor Rolli stesso è descritto prima
che come un professionista come un uomo, anche lui ha il suo bagaglio di irrisolti, i suoi conflitti etici, le domande a cui non
vuole dar risposta, i sensi di colpa
con cui non riesce a venire a patti. Ma, nonostante questo, o forse proprio per
questo, riesce però a guardare al suo prossimo con una empatia profonda, con una pietas
che riprende il senso pieno e originario del termine.
Centrale in
tutto il volume è il tema dello sguardo,
che può essere fondamentale nel processo
di guarigione o, se mancante o mal diretto, corresponsabile dell’emergere
del problema: gli adolescenti e le adolescenti che si presentano alla Ginestra
spesso si sentono invisibili, o
intrappolati nelle visioni errate che le figure educative riversano su di loro,
o che loro stessi si attribuiscono
come in uno specchio deformante.
Tutti vogliono essere riconosciuti e ascoltati,
e Marzano mostra un mondo adulto quasi
del tutto impreparato a farlo, anche quando animato dalle migliori
intenzioni.
I figli sono quindi vittime di due differenti e opposti pregiudizi, quello della malattia e quello della scarsa forza di volontà; i genitori prigionieri del proprio egocentrismo, della propria debolezza, di una visione del mondo rigida e incapace di allargarsi a comprendere un’alterità che non sia semplicemente una proiezione di sé. I dolori dei padri ricadono sui loro discendenti, che finiscono per ripercorrere solchi già tracciati che paiono impossibili da abbandonare, almeno senza un intervento esterno a correggere il tiro. È fondamentale allora, sembra dirci Marzano, che ciascuno faccia i conti con il proprio (inevitabile) dolore
perché chi non lo fa, prima o poi, il conto lo paga – questo lo sai, dottor Rolli, o no? E se non siamo noi a farcene carico, ci pensano i figli, i nipoti, gli allievi. Perché nulla si crea. Nulla si distrugge. Tutto si trasforma. (p. 197)
Secondo Rolli, la sofferenza psichica non è uno stato, perché è in continuo movimento, descrive un qualcosa che non può essere etichettato e cristallizzato, ovvero l’interiorità individuale, e contribuisce a delineare la storia, assolutamente unica, del singolo («L'afflizione non è uno stato, bensì un processo. Non le serve una mappa ma una storia», scriveva del resto anche C.S. Lewis nel Diario di un dolore citato all'interno del volume).
Tutti gli ospiti del centro portano agli incontri le proprie ferite: c’è Sara, che non esce più di casa perché il mondo le fa paura; Viola che si taglia per essere finalmente vista da una madre troppo concentrata su se stessa; Irene che rifiuta il cibo per poter avere il controllo su qualcosa; Noemi che cede a una fame incontrollabile, riflesso del vuoto che la divora da dentro; Gianpaolo, che sfoga il suo malessere nelle esplosioni di rabbia, Claudio che si rifugia nella droga; Clara che ruba per non pensare alla delusione rappresentata dal padre… Gli incontri, la condivisione mediata dei pensieri, il confronto dialettico con altri che sono diversi, ma anche in qualche modo simili, fanno emergere la necessità di cambiare prospettiva: cadere può non essere qualcosa di negativo, che segna una sconfitta, ma il prodromo di una possibile rinascita, come nel kintsugi giapponese («se il rompersi fosse, a volte, l’inizio della ricostruzione?», p. 143). E così anche la struttura dell’opera, che ricalca la circolarità dell’anno solare – le sedute si svolgono dall’autunno all’estate dell’anno successivo – dice del tempo e della pazienza necessari a ogni guarigione, dello spazio che bisogna lasciarsi per poter accettare ciò che non si può cambiare e concedersi una nuova possibilità per la propria vita.
Carolina Pernigo
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