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La dittatura di Pinochet vista attraverso gli occhi di due bambine: il gioco, il pericolo e la fantasia nel Cile sotto regime

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Mambo
di Alejandra Moffat
La Nuova Frontiera, ottobre 2025

Traduzione di Federica Niola

pp. 192
€ 17 (cartaceo)
€ 10,99 (e-book)

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«Io ve lo racconto, ma dovete promettermi di non dire niente ai vostri genitori. Assolutamente niente.»

Noi abbiamo annuito, anche se Fanny continuava a tenere gli occhi fissi sullo schermo.

«Ora promettete.»

«Prometto di non dire niente» ha detto Julia.

«Prometto anche io» ho detto, in attesa.
«Il giorno del golpe li hanno presi tutti e li hanno chiusi nei sotterranei di una banca a Valparaíso, e li hanno uccisi. In quei giorni erano come impazziti, be', non solo in quei giorni, poverini. I vostri genitori si sono salvati per tanto così» ha detto mostrando uno spazio piccolissimo tra le dita. (pg. 158) 

Di testi che raccontano i regimi, le dittature, specialmente quelle dell'America del Sud, ce ne sono parecchi e quest'anno ho avuto modo di leggerne, da Ho paura torero di Pedro Lemebel che ci ha magistralmente regalato un dipinto di Pinochet grottesco e irriverente, a La libertà è un passero blu di Eloneida Studart, fino a Sono ancora qui di Marcelo Rubens Paiva che invece hanno scritto della dittatura brasiliana. 
In tutti e tre i casi le vicende sono passate attraverso la parola di personaggi adulti, uomini e donne che hanno vissuto sulla propria pelle le torture, gli abusi e le violenze dei regimi; nel caso invece di questo romanzo di Moffat, la parola passa a due bambine, Ana e Julia, che con disincanto e ingenuità provano a capire cosa succede nel Cile di Pinochet (come per Lemebel).

Non hanno cognizione precisa di cosa significhi vivere in un Paese sotto dittatura, ma qualcosa intuiscono, leggendo tra le righe dei comportamenti - ai loro occhi - bizzarri dei genitori, delle visite strane che ricevono, dei disegni del padre e dei silenzi della madre. Sono confinate in una foresta, isolate da tutto: il testo semina all'inizio piccoli indizi sul perché si trovino lì, sul perché non possano mai dire i loro veri nomi, sulle raccomandazioni che i genitori fanno circa il possibile incontro con sconosciuti. Chiaro diventa al lettore che la famiglia si sta nascondendo, ma per le bambine è un gioco, un modo di tradurre la realtà attraverso l'invenzione di personaggi, di animali che entrano in casa a rubare cibo e lettere, di storie di fantasia che spiegano la vita peculiare che stanno vivendo (un po' come abbiamo visto anche in un altro testo, Celestino prima dell'alba di Reinaldo Arenas, in cui il protagonista è un bambino).

La storia qui ci viene raccontata attraverso il punto di vista di Ana: ai suoi occhi di bambina, e a quelli della sorella Julia, i comportamenti dei genitori - che stanno nascondendo qualcosa e loro provano a scoprire cosa, col rischio di far saltare la loro copertura - sono sì strani e inspiegabili, ma vengono inseriti in un contesto di fantasia, di gioco, di mistero da svelare. Sfortunatamente, nel corso del testo, le loro indagini infantili e le loro ingenuità (d'altra parte non si può pretendere il rigore assoluto da due bambine) avranno delle conseguenze che costringeranno tutta la famiglia a spostarsi, ad abbandonare la foresta per trasferirsi prima a Lima e poi a Conception. 

Papà portava a casa le riviste sportive e mamma le sottolineava sul tavolo della sala da pranzo. Poi le nascondeva tra l'armadio e la parete di camera loro. lo e Julia le tiravamo fuori quando uscivano. Le parole sottolineate erano sempre le stesse. Per esempio due, peso, salto, bianco. In ogni rivista c'era solo un articolo sottolineato. Per il resto c'erano foto di calciatori che correvano, pubblicità di scarpe da ginnastica e donne con le gonne corte che reclamizzavano racchette da tennis. Julia diceva che le riviste funzionavano come un codice morse, che erano sottolineate per comunicare informazioni segrete. (pg. 106-7)

Diventa sempre più chiaro che i genitori delle bambine sono dei dissidenti politici. Nel frattempo Ana e Julia crescono, perdono affetti e le cose a cui erano affezionate, quindi dovranno fare i conti con la perdita, lo scardinamento, lo sfasamento di trovarsi in luoghi diversi senza sapere perché. Forse qualcosa di ciò che succede comincia a essere più comprensibile quando la sparizione di una cara amica di famiglia, Monica, assume le connotazioni del lutto abbandonando quelle del gioco.

Pinochet, nel caso di questo romanzo, viene descritto come un'aquila, seguendo il filone di rappresentazione antropomorfa costante nel testo: un'aquila che vive in grandi palazzi, con le scarpe lucide e gli occhiali scuri, un animale cattivo che cerca di prendere tutta la famiglia. Ecco, le vicende sono raccontate tramite indizi, suggerimenti, metafore, camuffate da distrazioni e diversivi, e non potrebbe essere altrimenti, perché non dobbiamo dimenticare che a parlare è una bambina piccola, probabilmente di circa cinque o sei anni.

Il "mambo" del titolo, poi, niente ha a anche vedere col ballo (anche qui, la realtà viene piegata in forma di gioco): 

Abbiamo preso una penna nera di papà. La scritta sui nostri braccialetti è diventata così: MAMBO. Mónica. Marcela. Andrea. María Beatriz e Óscar. Le abbiamo lasciato un messaggio dentro la borsa: "Sappiamo il tuo nome, zia Verónica! Le tue nipoti appetitose". Abbiamo deciso di non dire a mamma e papà della nostra scoperta. (pg. 70)

La parabola di fuga della famiglia mi ha ricordato vagamente La vita è bella di Benigni: nella volontà del genitore di proteggere il proprio figlio, inventando un gioco che nasconda le brutture della realtà, ma anche nella dolcezza dello sguardo del bambino che capisce ma non dice, che avverte la sofferenza, la vive sula propria pelle, eppure viene distratto da una caccia al tesoro in cui si combatte - inconsapevolmente - per la propria sopravvivenza.  

Lo consiglio a chi è appassionato di storie dissidenti, attiviste, che vanno contro ogni regime, ogni violenza e che denunciano, a volte attraverso voci innocenti, ciò che non dovrebbe esistere eppure è: il marcio degli assolutismi e delle dittature

Deborah D'Addetta