La notte devastata è l’ultimo libro di Jean-Baptiste Del Amo, pubblicato in Francia con Gallimard e in Italia uscito da qualche settimana per Feltrinelli Gramma. Del Amo è un autore francese che al suo esordio, nel 2009 a soli 26 anni, ha vinto il prestigioso Prix Goncourt opera prima con Un’educazione libertina (Beat 2023), a cui sono seguiti altri interessanti romanzi. Il suo ultimo romanzo è un omaggio al genere horror ed è già stato definito dalla rivista «Lire» “il miglior libro dell’anno”.
Io l’ho trovato incredibilmente malinconico e feroce al tempo stesso. Al di là del genere horror, che figura tra quelli che mi affascinano di più, la prima parte del libro è di certo un profondo scavo psicologico nella vita degli adolescenti degli anni Novanta e nelle dinamiche sociali e familiari che girano attorno a loro. 
La notte devastata
di Jean-Baptiste Del Amo
Gramma Feltrinelli, ottobre 2025
Traduzione di Maria Baiocchi
pp. 432
€ 19 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
VEDI IL LIBRO SU AMAZON
Del Amo scrive come chi ha imparato a osservare l’ombra: la sua prosa è densa, febbrile, attraversata da una tensione che non lascia scampo. Ogni frase sembra avanzare con la lentezza di una ferita che si richiude solo per riaprirsi altrove. Frase dopo frase, costruisce un orrore intimo, più psicologico che spettacolare: un terrore che nasce dall’infanzia, dal non detto, dalla genealogia segreta delle ferite. È evidente il suo profondo amore per le parole, che diventano ponti sulle idee e che veicolano già, nel centro procedere dei discorsi, il presagio dell’incubo che inghiottirà i suoi personaggi.
La trama racconta le vite di cinque ragazzi: Thomas, Mehdi, Alex, Max e Lena, che abitano più o meno felicemente i loro drammi familiari, le sfide adolescenziali, i primi approcci sessuali, confrontandosi con la realtà chiusa di un paesino vicino Tolosa, Saint-Auch (paese fittizio che però nasconde un paese vero, come lo stesso autore ha raccontato).
Negli anni Novanta si fuma spesso robaccia, procurata dagli adulti, si guardano i film horror e si ascoltano i Nirvana. A scuola si subiscono violenze – che solo anni dopo chiameremo bullismo –, si cerca una propria identità sessuale, si stringono alleanze e amicizie, si alimentano sogni di fuga o si cerca rifugio tra le poltrone abbandonate di luoghi improbabili. Ma ai margini delle loro villette con giardino e l’intonaco rosa, ce n’è una, abbandonata e con le finestre sbarrate, che tutti dicono sia maledetta. I ragazzi hanno quasi la sensazione di averla sognata, ognuno a suo modo e un giorno, in seguito alla sparizione di un loro compagno, decidono di entrarci tutti insieme. Da quel momento le loro vite cambieranno per sempre.
Lo scrittore è stato impegnato in un tour italiano tra Milano e Cuneo e ha parlato del suo romanzo anche al pubblico di Scrittorincittà. Io l’ho incontrato in esclusiva per CriticaLetteraria e questa intervista è il frutto di quella chiacchierata.
***
Ho trovato il libro bellissimo e devastante. Un inno agli anni ’90 con tutte le sue sfaccettature, ma guardati con la nostalgia di chi sa già che quelle esperienze non torneranno più e in questo senso è un inno all’adolescenza e a tutti i pregi e i limiti che quella condizione impone. Ci può spiegare meglio cosa hanno significato per lei quegli anni?
Grazie per l’interesse verso il libro. Gli anni ’90, per me, sono stati un periodo piuttosto contraddittorio. All’inizio, credo che siamo cresciuti con una sorta di leggerezza: non c’erano guerre che ci minacciassero direttamente, i conflitti armati erano lontani. E sono stati anche anni in cui, per esempio, non parlavamo affatto di clima o di emergenza ambientale. Eppure, allo stesso tempo, sono stati gli anni dell’epidemia di AIDS, così come quelli dell’alto tasso di disoccupazione in Francia e della virata verso destra. Quindi, da un lato c’era una certa serenità nel crescere, dall’altro una serie di ferite sociali importanti. La generazione dei nostri genitori, che aveva vissuto il ’68 e gli anni ’70, era passata attraverso un grande disincanto rispetto alle aspettative del passato; noi, invece, siamo cresciuti in un contesto diverso, più ambiguo.
Di certo anche i riferimenti al cinema e alla letteratura, così come alla musica hanno il loro peso. Non si può fare a meno di pensare anche all’America di Stephen King e alla desolazione delle periferie. Quanto è importante per lei ricreare un contesto in cui immergere le paure dei suoi protagonisti e come fa a immaginarlo?
Sì, infatti la prima idea per questo libro era proprio rappresentare gli anni ’90 e allo stesso tempo raccontare il territorio delle periferie residenziali in cui sono cresciuto e che sono ancora poco presenti nella narrativa francese contemporanea. Nel cinema o nella letteratura americana, invece, ciò che viene chiamato suburbs è diventato molto presto un territorio narrativo: un luogo in cui si possono proiettare le paure dell’America contemporanea e, allo stesso tempo, raccontare le crepe del cosiddetto American way of life. Mostrare che questi quartieri residenziali, teoricamente simboli di sicurezza e armonia, possono invece diventare spazi di disordine, violenza, segreti. Mi sembrava molto interessante usare la periferia francese allo stesso modo: come un luogo capace di rivelare le paure dei miei personaggi. E ho capito presto che la casa infestata, la mitologia della haunted house, sarebbe stata la porta d’ingresso nel romanzo.
Invece di un castello gotico, ho scelto la casa più ordinaria possibile, per trasformarla in una casa stregata diversa dal solito: non una casa maledetta, ma una casa quasi organica, che assorbe e riflette i desideri e le paure dei personaggi. Questa è stata la parte più stimolante da scrivere.
In questo libro al centro ci sono gli adolescenti con i loro abissi personali, dei microcosmi in cui si consuma l’orrore che sembra quasi ingioiare i legami, in questo senso è come se la casa simbolica sia il guscio vuoto a cui guardare come un modellino in cui ognuno di quelle famiglie possono trasformarsi, una grande metafora delle famiglie disfunzionali di ieri e di oggi, con la differenza che oggi si ammette di più cosa non funziona?
Credo che tutte le famiglie siano disfunzionali. Oggi, grazie ai media, siamo più informati su ciò che rende disfunzionale una famiglia. Penso, per esempio, all’incesto: se ne parla apertamente solo da pochi anni. Così come la violenza sulle donne. Negli anni ’90 esisteva ancora una forte legge del silenzio sui drammi familiari. Oggi ne parliamo di più, ma questo non significa che quei problemi non esistano più.
La casa infestata del romanzo rende visibile tutto ciò: le paure, i desideri taciuti, le tensioni. E per questo non volevo un orrore gratuito. Volevo un orrore che rivelasse qualcosa dei personaggi, che incarnasse ciò che li abita. Per questo la prima parte del romanzo scava nelle loro sensibilità, nei segreti, nelle relazioni familiari. È questa realtà, questa intimità, che dà senso alla parte più horror del libro.
La mente dei personaggi è sempre annebbiata, molti dimenticano o fanno finta di dimenticare, altri desiderano e non vorrebbero. C’è una resistenza che il corpo non ha, perché sul corpo si manifestano le ferite e il corpo alla fine non si può nascondere. C’è una specie di memoria somatica che vuole indagare nei suoi romanzi e come mai?
Sì, la casa funziona come un’esternalizzazione dell’inconscio dei personaggi. C’è una parte di loro e dei loro ricordi che è caduta nell’oblio, ma questo è il funzionamento stesso della memoria. A volte dobbiamo dimenticare per poter vivere. Soprattutto quando si tratta di traumi: diventa vitale dimenticare una parte di ciò che abbiamo vissuto per poter andare avanti.
I ragazzi del romanzo devono affrontare ciò che è rimasto sepolto, ma devono anche attraversare il passaggio verso l’età adulta: fare i conti con il lutto, con il rimpianto, con la rinuncia, con una realtà che da adulti scopriamo spesso molto violenta.
Che tipo di eredità emotiva racconta “La notte devastata”? La violenza è per lei un destino o un linguaggio appreso?
Esistono diversi tipi di violenza: una violenza strutturale, economica, sociale, che dipende dal contesto in cui cresci, e una violenza più intima, familiare, che può ripetersi di generazione in generazione. Quando ci si trova immersi nella violenza sistemica, non è semplice capirne i meccanismi. Ma l’unico modo per uscirne è comprendere l’origine della violenza. È un tema che ho affrontato anche nei miei romanzi Regno animale e Il Figlio dell’Uomo.
E con La notte devastata porto avanti questa riflessione, anche se in modo diverso, perché qui si intrecciano altre tematiche. Ma resta al centro del mio lavoro: io non sono uno sociologo o un filosofo, sono uno scrittore. Il mio compito è dare forma alle paure, anche alle mie. Come la casa del romanzo, cerco di rendere visibile ciò che è sommerso.
Non ho risposte definitive. Ho domande. E storie con cui cercare di attraversarle.
Intervista a cura di Samantha Viva (autrice anche delle foto).
Si ringrazia l’ufficio stampa della casa editrice Feltrinelli - che ha pubblicato il libro in Italia nella collana Gramma - e la traduttrice Sara Cuminetti.

Social Network