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«Il sangue è amore»: quando la famiglia è una condanna in "L'ultimo re di California" di Jordan Harper

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L'ultimo re di California
di Jordan Harper
Neri Pozza, ottobre 2025

Traduzione di Giovanni Zucca

pp 288
€ 19,00 (cartaceo)
€ 20,99 (ebook)

Il deserto è uno spazio neutro. Il deserto è una tela bianca sulla quale scrivere la propria storia e, quando non ci piace più ciò che vi abbiamo tracciato, cancellare tutto e ricominciare, consapevoli che le dune di sabbia che lo compongono non conservano memoria di ciò che vi accade, soprattutto se anche il fuoco fa la sua parte, come in una danza ben eseguita. È questo che accade a Luke, il protagonista de L’ultimo re di California di Jordan Harper, scrittore e sceneggiatore statunitense già noto per Educazione criminale (2017).

Luke Crosswhite, diciannovenne allampanato, è fuggito due volte nella sua vita: la prima dalla sua casa natale, Devore – un luogo che brucia anche quando non c’è alcun incendio a divorarlo –, ben lontano dalla California patinata che tutti conosciamo, per frapporre tra sé e la sua famiglia molte miglia di distanza, in fuga da una realtà che non riesce a sopportare. La seconda volta dal suo appartamento – o forse caverna è più appropriato – di Colorado Springs, dove ha provato a rifarsi una vita, per tornare in California, a casa, gettando alla rinfusa nel bagagliaio tutto ciò che possiede e lasciandosi dietro l’università, una fidanzata, un affitto da saldare e una vita che non è la sua. Il romanzo si apre dunque con un cerchio che si chiude, e con dodici anni che a nulla sono serviti, perché il passato e i fantasmi che esso porta con sé restano ben piantati nella memoria.

Gli brucia lo stomaco, la flora intestinale è in aperta ribellione. Ne hanno ben diritto, pensa, è tutto il giorno che li bombarda di bevande energetiche e sacchetti di schifezze soffiate piccanti. O forse è qualcos’altro che li ha irritati. Qualcosa che gli gorgoglia dentro da quanto è rientrato in California per la prima volta in dodici anni. Qualcosa di denso e scuro che ha un sapore dolciastro di root beer, la birra analcolica. Sta tornando a casa. (pp. 13-14)

A Devore, comunque, nulla è cambiato – o, quantomeno, nulla di macroscopico: il Combine, la gang criminale della famiglia Crosswhite, continua a portare avanti i propri affari come sempre, capeggiata da Big Bobby, padre-sovrano di Luke, ancora sul trono dell’organizzazione anche da dietro le sbarre. Luke sarebbe dunque il legittimo principe ereditario di questo reame fatto di sabbia, detriti e rottami, ma ciò che accadde dodici anni prima, fuori dall’Arrowhead Lanes Bowling, ha sparigliato le carte, trasformando l’erede al trono in un estraneo, troppo debole per affrontare le sfide che attendono la famiglia.

Il ragazzo si tocca di nuovo la T-shirt sul cuore.

«Il sangue è amore».

Nella testa di Luke qualcuno dice: «Ehi Bobby come butta Bobby il sangue è amore Bobby». […]

L’unica cosa che sa per certo è che questo non è posto per lui. Che Bobby è suo padre, ma lui non è suo figlio. (p. 20)

È però l’arrivo di un nemico più grande e pericoloso a rinsaldare i vecchi legami, a ricompattare la famiglia e a rivelare il vero smalto di ciascuno. Quando Beast Daniels, capo di una gang rivale, uccide un uomo nel deserto – crocifiggendolo al suolo e lasciandolo lentamente asfissiare tra le esalazioni del fuoco – si consuma il primo atto di una guerra tra bande per il predominio.

Una morte orribile. Proprio come l’ha voluta Beast Daniels. Un omicidio ha in sé qualcosa di magico. Poteri che fanno sì che una sola persona uccisa intenzionalmente faccia colpo sul mondo molto più di un milione di vite abbreviate da un incidente d’auto o da un cancro. Beast Daniels lo sa bene. (p. 8)

Gli attori, allora, sono tutti al loro posto per prendere parte ai successivi atti di questa tragedia, dove ogni ruolo ha il suo interprete: l’eroe, il re, il traditore. Luke comprende così che forse la famiglia da cui è fuggito è l’unico posto in cui vuole davvero stare, l’unico contesto in cui sentirsi vivo e autentico.

Il coltello è piccolo e acuminato, fatto per penetrare tra le costole o sotto la clavicola. Luke sente il filo della lama, il confine sottile che potrebbe tagliare in due per sempre l’universo. Vorrebbe chiedere, anzi implorare pietà, ma quella cosa che ha dentro non glielo lascia proprio fare. È più forte del coltello e se ne fotte della vita di Luke, o di qualunque altra cosa che non sia rifiutarsi di cedere. (p. 157)

Alcune famiglie, però, sono una condanna, perché non c’è spazio per l’errore, per la debolezza o per chi tenti – o anche solo immagini – di infrangere quel foedus che unisce i membri di un gruppo dove il legame di familiarità è la legge suprema. Una famiglia che non sempre coincide con il sangue, ma il cui vincolo è, forse proprio per questo, ancora più stringente. Allora quel cuore nero tatuato sul cuore vero, segno distintivo dei membri della gang e, prima di ogni cosa, della famiglia, diventa una condanna da cui è impossibile fuggire. E così Luke si avventura in questa nuova vita, forse per dimostrare – più a sé stesso che agli altri – chi è davvero.

«Questo è l’inchiostro del morto» dice. Nella stanza cala il silenzio. Luke sa riconoscere un oggetto sacro, quando lo vede.

«Inchiostro mescolato ai resti di John Meadows, il primo dei nostri fratelli caduti. Quando fu cremato, prima che le ceneri venissero recapitate alla famiglia di sua madre su in Oklahoma, Bobby ne prese due belle manciate e ne mescolò un po’ a una grossa bottiglietta di inchiostro nero, poi disse a Ernesto di tatuargli un cuore nero nel punto in cui batte il cuore vero». (p. 179)

Corinna Angelucci