Il deserto è uno spazio
neutro. Il deserto è una tela bianca sulla quale scrivere la propria
storia e, quando non ci piace più ciò che vi abbiamo tracciato, cancellare
tutto e ricominciare, consapevoli che le dune di sabbia che lo compongono non
conservano memoria di ciò che vi accade, soprattutto se anche il fuoco
fa la sua parte, come in una danza ben eseguita. È questo che accade a Luke, il
protagonista de L’ultimo re di California di Jordan Harper,
scrittore e sceneggiatore statunitense già noto per Educazione criminale
(2017).
Luke Crosswhite,
diciannovenne allampanato, è fuggito due volte nella sua vita: la prima dalla
sua casa natale, Devore – un luogo che brucia anche quando non c’è alcun
incendio a divorarlo –, ben lontano dalla California patinata che tutti
conosciamo, per frapporre tra sé e la sua famiglia molte miglia di
distanza, in fuga da una realtà che non riesce a sopportare. La seconda volta
dal suo appartamento – o forse caverna è più appropriato – di Colorado
Springs, dove ha provato a rifarsi una vita, per tornare in California, a
casa, gettando alla rinfusa nel bagagliaio tutto ciò che possiede e lasciandosi
dietro l’università, una fidanzata, un affitto da saldare e una vita che non è
la sua. Il romanzo si apre dunque con un cerchio che si chiude, e con
dodici anni che a nulla sono serviti, perché il passato e i fantasmi che
esso porta con sé restano ben piantati nella memoria.
Gli brucia lo stomaco, la flora intestinale è in aperta ribellione. Ne hanno ben diritto, pensa, è tutto il giorno che li bombarda di bevande energetiche e sacchetti di schifezze soffiate piccanti. O forse è qualcos’altro che li ha irritati. Qualcosa che gli gorgoglia dentro da quanto è rientrato in California per la prima volta in dodici anni. Qualcosa di denso e scuro che ha un sapore dolciastro di root beer, la birra analcolica. Sta tornando a casa. (pp. 13-14)
A Devore, comunque, nulla è
cambiato – o, quantomeno, nulla di macroscopico: il Combine, la gang
criminale della famiglia Crosswhite, continua a portare avanti i propri affari
come sempre, capeggiata da Big Bobby, padre-sovrano di Luke, ancora sul
trono dell’organizzazione anche da dietro le sbarre. Luke sarebbe dunque il legittimo
principe ereditario di questo reame fatto di sabbia, detriti e rottami, ma
ciò che accadde dodici anni prima, fuori dall’Arrowhead Lanes Bowling,
ha sparigliato le carte, trasformando l’erede al trono in un estraneo, troppo debole
per affrontare le sfide che attendono la famiglia.
Il ragazzo si tocca di nuovo la T-shirt sul cuore.
«Il sangue è amore».
Nella testa di Luke qualcuno dice: «Ehi Bobby come butta Bobby il sangue è amore Bobby». […]
L’unica cosa che sa per certo è che questo non è posto per lui. Che Bobby è suo padre, ma lui non è suo figlio. (p. 20)
È però l’arrivo di un nemico
più grande e pericoloso a rinsaldare i vecchi legami, a ricompattare la
famiglia e a rivelare il vero smalto di ciascuno. Quando Beast Daniels,
capo di una gang rivale, uccide un uomo nel deserto – crocifiggendolo al suolo
e lasciandolo lentamente asfissiare tra le esalazioni del fuoco – si consuma il
primo atto di una guerra tra bande per il predominio.
Una morte orribile. Proprio come l’ha voluta Beast Daniels. Un omicidio ha in sé qualcosa di magico. Poteri che fanno sì che una sola persona uccisa intenzionalmente faccia colpo sul mondo molto più di un milione di vite abbreviate da un incidente d’auto o da un cancro. Beast Daniels lo sa bene. (p. 8)
Gli attori, allora, sono
tutti al loro posto per prendere parte ai successivi atti di questa tragedia,
dove ogni ruolo ha il suo interprete: l’eroe, il re, il traditore. Luke
comprende così che forse la famiglia da cui è fuggito è l’unico posto in cui
vuole davvero stare, l’unico contesto in cui sentirsi vivo e autentico.
Il coltello è piccolo e acuminato, fatto per penetrare tra le costole o sotto la clavicola. Luke sente il filo della lama, il confine sottile che potrebbe tagliare in due per sempre l’universo. Vorrebbe chiedere, anzi implorare pietà, ma quella cosa che ha dentro non glielo lascia proprio fare. È più forte del coltello e se ne fotte della vita di Luke, o di qualunque altra cosa che non sia rifiutarsi di cedere. (p. 157)
Alcune famiglie, però, sono una condanna,
perché non c’è spazio per l’errore, per la debolezza o per chi tenti – o anche
solo immagini – di infrangere quel foedus che unisce i membri di
un gruppo dove il legame di familiarità è la legge suprema. Una famiglia che
non sempre coincide con il sangue, ma il cui vincolo è, forse proprio per
questo, ancora più stringente. Allora quel cuore nero tatuato sul cuore
vero, segno distintivo dei membri della gang e, prima di ogni cosa, della
famiglia, diventa una condanna da cui è impossibile fuggire. E così Luke si
avventura in questa nuova vita, forse per dimostrare – più a sé stesso che agli
altri – chi è davvero.
«Questo è l’inchiostro del morto» dice. Nella stanza cala il silenzio. Luke sa riconoscere un oggetto sacro, quando lo vede.
«Inchiostro mescolato ai resti di John Meadows, il primo dei nostri fratelli caduti. Quando fu cremato, prima che le ceneri venissero recapitate alla famiglia di sua madre su in Oklahoma, Bobby ne prese due belle manciate e ne mescolò un po’ a una grossa bottiglietta di inchiostro nero, poi disse a Ernesto di tatuargli un cuore nero nel punto in cui batte il cuore vero». (p. 179)
Corinna Angelucci
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