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“Le opere di Dio” di Giuseppe Berto: la forza muta di chi resta in piedi

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Le opere di Dio
di Giuseppe Berto
Neri Pozza, novembre 2025
 
pp. 192
€ 20,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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«[…] Io non capisco perché ogni tanto devono venire di queste guerre che rovinano gli uomini. Anche quelli che non muoiono restano rovinati, dopo». (p. 168)

Questa frase restituisce in modo nitido la postura emotiva de Le opere di Dio, romanzo di Giuseppe Berto riproposto da Neri Pozza in un’edizione arricchita dalla prefazione di Giulia Caminito e dall’introduzione dell’autore del 1965, L’inconsapevole approccio. Un testo poco frequentato nel canone bertiano, ma capace di mostrare uno dei nuclei più solidi della sua scrittura: la tensione tra fatalità e resistenza, tra passività e improvvise, fragili epifanie.

La storia si regge su pochi personaggi, collocati in una dimensione rurale attraversata dall’avanzata del conflitto: Madre, la Rossa, Nino, Effa, il vecchio Mangano e il piccolo Filippo. Figure essenziali, che occupano la scena con naturalezza e delineano un microcosmo in cui la guerra irrompe senza retorica, solo come progressiva deformazione del quotidiano. L’impianto narrativo richiama, per struttura e movimento, la transumanza disperata di Mentre morivo di Faulkner: un gruppo costretto a mettersi in cammino, trascinando con sé affetti, superstizioni, oggetti e paure. L’accostamento non riguarda il contesto – qui la guerra sostituisce la morte della matriarca – ma la logica dello spostamento, il viaggio come scompaginamento forzato dell’ordine domestico.

Da questa vicinanza nasce anche il tema, allora molto discusso, dell’“americanismo” di Berto. L’edizione Neri Pozza ricostruisce con precisione i fraintendimenti critici: l’autore, più volte scambiato per un epigono di Hemingway, venne spesso liquidato come imitatore. Nell’introduzione Berto ripercorre le recensioni che lo volevano dipendente dalla narrativa statunitense, una lettura riduttiva che, a suo avviso, ignorava la radice biografica e morale della sua scrittura. Paradossalmente, proprio l’esperienza nel campo di prigionia di Hereford, in Texas, durante la guerra – luogo in cui ebbe accesso ai primi romanzi americani e dove iniziò a scrivere – contribuì a creare l’equivoco. Una stagione decisiva, da cui nacque anche Il cielo è rosso, pubblicato da Longanesi su segnalazione di Giovanni Comisso. Berto osserva che chi gli attribuiva un americanismo superficiale trascurava un dato fondamentale, e cioè «Alla sua colpa di uomo Berto aggiungeva la sua colpa di italiano, anzi di “italiano che aveva portato la camicia nera”» (p. 77). La sua prosa nasce dunque da una frattura biografica, non da un’adesione estetica.

La narrazione vera e propria prende avvio a pagina 83 e si concentra sull’escalation che coinvolge il vecchio Mangano e il nipote Filippo. Il vecchio, già reduce dal primo conflitto mondiale, affronta la nuova guerra con un’attesa quasi stanca, tra vino, ostinazione e un’energia che si consuma lentamente. Gli altri membri della famiglia preparano le provviste, raccolgono ciò che può essere salvato; lui resta seduto, immobile, mentre il bambino lo osserva e lo imita: 

«Tutti si alzarono pronti da tavola, meno il vecchio, naturalmente, e il bambino. Non c'era niente che si potesse dar da fare a loro». (p. 112)

Il rapporto tra i due regge finché l’anziano non si perde nell’alcol e nello smarrimento. Da quel momento la loro complicità vacilla, sostituita dall’ossessione del vecchio per il proprio maiale, che diventerà un peso reale e simbolico. Per Filippo, invece, il viaggio segna l’interruzione brusca dell’infanzia. La terra, fino a quel momento associata alla semina dei piselli e alla vita agricola, diventa il teatro della morte attraverso la sepoltura, e «[…] Per tutto il tempo poi lo sguardo del bambino rimase fisso sui soldati che scavavano la terra» (p. 170).

Il tema dell’abbandono attraversa il romanzo: lasciare la casa con la speranza di tornare, senza avere alcuna certezza. In questo vuoto emergono le figure più solide, Madre e la Rossa, che mantengono lucidità e sangue freddo mentre attorno esplodono spari e cannonate. Sono loro il fulcro della sopravvivenza familiare, le depositarie di una forza silenziosa ma determinante.

Il finale chiude il cerchio con una frase che sintetizza la logica dell’esistenza, più che della guerra: 

«Ci si pensa sempre dopo» disse ancora la madre. (p. 148)

In queste parole si concentra la tonalità del romanzo: la consapevolezza tardiva, la constatazione di ciò che sfugge, la resa senza patetismi. Un libro che, nella sua essenzialità, illumina una delle voci più rigorose e misconosciute del Novecento italiano.

Leonardo D'Isanto