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Cosa vuol dire "prepararsi" oggi, alla luce del femminismo e delle scelte di ciascuno di noi: intervista a Sara Marzullo

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Dopo Sad Girl. La ragazza come teoria, saggio uscito nel 2024 sempre per 66thand2nd, la scrittrice Sara Marzullo torna in libreria con un secondo testo che ci pone numerose domande: cosa vuol dire prepararsi? Si tratta di una scelta o di un'imposizione interiorizzata? Perché i vestiti sono importanti? E perché quando si parla di prepararsi si include quasi sempre solo l'universo socialmente riconosciuto come femminile?

Ne abbiamo parlato con l'autrice stessa in quest'intervista che approfondisce le posizioni di Marzullo e le tematiche del testo.

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Prepararsi. Il libro delle apparenze
di Sara Marzullo
66thand2nd, 2025

pp. 216
€ 18 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)

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Ciao Sara e bentornata in libreria. Avevo già avuto modo di leggere e recensire Sad girl, che mi era piaciuto molto, e oggi sono ancora più felice di discutere con te di questo nuovo testo, Prepararsi. Il libro delle apparenze. Intanto, per chi non lo avesse letto, o vorrebbe farlo, ti chiederei di darci un’infarinatura del contenuto in poche parole, così da gettare le basi per la nostra intervista.

In questo libro mi sono interrogata sulla nostra diffidenza rispetto a tutto quello che concerne l’apparenza: perché, infatti, la bellezza è una domanda che sembra sempre rivolta a un’interlocutrice femminile? Partendo da una osservazione un poco scontata, cioè che le donne ci mettano in media più tempo degli uomini a prepararsi per uscire di casa, sono andata alla ricerca dell’ambivalenza che sta dietro a questo gesto quotidiano e a quanto sembri legato solo a un genere. Appena ci interroghiamo un attimo su questo rito, viene subito fuori quanto sia tutt’altro che superficiale e quanto sia proprio nei modi in cui ci prepariamo che sono nascoste alcune delle angosce più profonde del presente, in particolare quelle che riguardano il genere e la classe. In un certo senso ho voluto rileggere Il secondo sesso di Simone de Beauvoir a quasi ottant’anni della sua scrittura, chiedendomi se e come siamo sfuggite all’alienazione che la filosofa francese ha saputo bene descrivere. 


Il sottotitolo del saggio è “il libro delle apparenze”. Questo presuppone che, nel gesto di prepararsi, ci sia un inganno, una volontà di apparire altro, qualcuno che siamo noi ma, al tempo stesso, non siamo noi. Eppure la storia ci insegna che non c’è stato un momento in cui non ci siamo preparati. Cosa caratterizza oggi, nei tempi contemporanei, il gesto di vestirci, truccarci, indossare determinati gioielli e calzature? Cosa distingue il prepararci oggi da quello di ieri (se esiste una differenza)? 


Vedi che anche la stessa parola contiene molteplicità: “apparenza” significa anche solo “apparire”, cioè essere visibile - che, come scrive Hannah Arendt in Vita della mente, coincide con l’esistere. Esistiamo, dice, finché appariamo e la nostra morte coincide con la nostra scomparsa. Quello che noti tu, però, è piuttosto il pregiudizio che le apparenze siano per loro natura ingannevoli e che la verità possa sempre essere manipolata. Questo deriva dalla tradizione platonica e cristiana per cui il corpo è sempre inferiore all’anima, ciò che è palese lo sia rispetto a ciò che è nascosto. Potremmo invece dire che noi siamo anche le nostre apparenze, che qui esprimiamo una parte di noi, che ci disseminiamo di indizi per gli altri. Tuttavia, perché viviamo in società, a volte questi indizi di noi dicono solo il nostro desiderio di essere come tutti o di fingere almeno di farlo. Insomma ieri, come oggi, il nostro aspetto è lo spazio di negoziazione tra le istanze identitarie e il bisogno di conformarci a ciò che ci è presentato come giusto; in ogni caso è carico di costruzioni culturali e sociali che mantengono e sovvertono le nostre idee di genere, di decoro e di classe, in tutti e due i sensi. 


Nel tuo testo giustamente tu sottolinei che non si deve cedere alla tentazione di pensare al prepararsi come a un’azione frivola, prettamente femminile, ma che, dietro questa intenzione – volontaria o meno – ci sono delle intenzioni più profonde. Molte persone, ad esempio, riscoprono la propria identità, o si interrogano su essa, giocano a travestirsi, a cambiare personalità indossando una gonna di un certo tipo o una scarpa di un altro. Perché allora, secondo le tue ricerche, il semplice fatto di sedere davanti a uno specchio per essere pronte (come dici tu, come se non lo fossimo già) viene visto come un atto superficiale e un po’ insicuro? 


È sempre colpa della nostra visione gerarchica dell’anima e del corpo, temo, con tutto il suo disprezzo per ciò che è terreno. A questa si aggiunge poi l’idea che la razionalità e la logica (ossia la modernità) abbiano fatto dell’osservare l’altro e non sé il loro carattere fondante: la morigeratezza dei costumi è un modo per non cadere vittima delle illusioni, per continuare a ricercare il vero, che poi è vero per gli scienziati, i mercanti olandesi del Seicento e i frati francescani. Con quella che Flugel chiama la “grande rinuncia maschile”, che coincide con l’Illuminismo, gli uomini cedono i belletti e i tacchi alle donne, imponendo loro e accusandole poi di una vanità a cui loro (gli uomini) avevano dovuto rinunciare. 

Tu affronti da più angolazioni anche il mito della bellezza naturale. Ma cosa vuol dire “bellezza naturale”? Spieghi molto bene nel testo che questo tipo di apparenza in realtà nasconde ore di preparazione, di manutenzione, di innumerevoli prodotti e outfit ben pensati. Per contro, quel tipo di bellezza sfacciata, che oggi diremmo volgare – labbra troppo gonfie, chirurgia estetica eccessiva, trucco vistoso, marchi bene in vista, abbronzatura molto scura – viene subito disprezzata. Ma, in fondo, i due metodi di preparazione – per apparire naturali e per apparire vistosi – non condividono le stesse intenzioni di fondo, cioè presentarci in società con una maschera? 


Prendersi “troppo” cura si sé significa o prendersi eccessivamente sul serio o dare troppa importanza all’opinione altrui, due cose che consideriamo forme di debolezza. Un modo per aggirare queste accuse è rendere invisibile l’impegno con cui si cura il proprio aspetto, dare l’impressione di “essere naturalmente” così; insomma è la sprezzatura di cui già parlava Baldassarre Castiglione, niente di nuovo, un segno di nobiltà, letteralmente di savoir faire, di competenza. Perché la questione è che comunque la bellezza resta una costruzione culturale, che non esiste “ontologicamente” - per usare il vocabolario filosofico. Il più delle volte questa bellezza coincide con le regole imposte dal potere. Sembrare “naturalmente” belli implica dunque essere “naturalmente” potenti, o perlomeno conoscere le regole sociali per nascita o intuitivamente, non perché si sono studiate e applicate. La bellezza delle “it girl”, per esempio, ci piace perché sembra dettare le regole, invece che seguirle, ma resta ugualmente pensata e costruita, anche se (e perché) non appare tale. La bellezza “eccessiva” e vistosa, invece, fa riemergere il rimosso, ossia il desiderio lancinante che abbiamo di essere amati, accolti e apprezzati, che è un desiderio imbarazzante e scomodo. Le labbra troppo gonfie, in un certo senso, chiedono in maniera troppo palese l’approvazione altrui o ricordano che la bellezza è fatta di standard mobili e diktat momentanei e, appena non sono seguiti con competenza o passano di moda, ricordano la loro natura culturale e si dimostrano punitivi per chi vi ha obbedito.  


Come entra il discorso del femminismo nel testo? Quanto le istanze del femminismo influiscono sul nostro modo di prepararci e di apparire? Tendenzialmente, il femminismo contemporaneo guarda con la puzza sotto al naso alle donne che si preparano troppo mentre elogiano le cosiddette “bellezze naturali” (ma abbiamo già visto che questa espressione, soprattutto oggi ai tempi dei social, non vuol dire nulla). Davvero la quantità di trucco che indossiamo o una maglietta griffata ci rende meno femministe? 


Simone de Beauvoir ne Il Secondo sesso vuole raccontare l’esperienza femminile come Altro e il modo in cui è costretta a oggettificarsi e alienarsi continuamente, a far coincidere ferocemente i propri interessi con sé stessa. Il femminismo, di lì in poi, considera la consapevolezza di sé e del proprio io fuori da questa dinamica di soggetto e altro, condannando l’acquiescenza con cui riproduciamo la nostra stessa sottomissione. Per fortuna dal 1949 a oggi, anche grazie alla filosofa francese e ai movimenti femministi, è cambiato molto il modo in cui ci percepiamo ed esperiamo la nostra esistenza. De Beauvoir parlava del lavoro come strumento di indipendenza ed è qualcosa che abbiamo ottenuto. C’è tuttavia qualcosa che accade negli anni Novanta - come notano Nancy Fraser o Angela McRobbie - con il “cultural turn” in cui il femminismo o perde parte dello slancio politico o è cooptato dal capitalismo, che in una specie di cura di anticorpi assume alcuni concetti come “scelta” e “empowerment” per continuare a esistere. Oggi ci troviamo in un momento in cui è veramente raro sentire che ci si prepara per gli altri, che siano gli uomini o “la società” in senso più astratto, ma è sempre un gesto per sé. Questo un po’ spariglia le carte: anche le bellezze poco naturali possono far riferimento alla stessa istanza emancipatoria, anche i movimenti di ritradizionalizzazione possono dire che attuano delle scelte perfettamente intenzionali. Certo, c’è poi l’insegnamento femminista del resistere allo sguardo maschile, ma mi sembra più importante guardare nella direzione della ottimizzazione dell’autoperfezionamento, dove la questione della bellezza naturale o artificiale si fa meno forte, e invece emerge questo giudice interiore che però finisce per farci scegliere regimi di automonitoraggio identici a quelli che pensiamo di esserci messe e messi alle spalle. 


A pagina 82 chiudi un paragrafo con un pensiero molto interessante. Dici: «Prepararsi è un gesto di negoziazione tra forze diverse, tra ciò che desideriamo esprimere e il modo in cui pensiamo di dover apparire». Io qui percepisco l’entrata in campo di un elemento fondamentale che arricchisce il discorso, ovvero la performance, un concetto di cui discuto con chi mi segue da tanto tempo, e che sembra permeare ogni ambito, non solo quello estetico. Se però ci teniamo aderenti al prepararsi possiamo scomporre i nostri gesti e capire quanti di questi siano frutto di una nostra scelta libera e quanti invece sono condizionati dal dover performare in società? Ma soprattutto, è sbagliato performare? 


La pelle è proprio lo spazio di confine tra l’individuo e la società ed è un confine poroso, dove non è chiaro dove inizi uno e finisca l’altro. Perché le apparenze implicano un osservatore, pur immaginario, queste hanno ragione solo in senso sociale e relazionale (banalmente: finché non usciamo di casa, non è davvero importante come ci siamo conciati); come scrive anche Ciara Cremin la sua esperienza di cross dresser ha avuto conseguenze su lei e sugli altri solo quando ha iniziato a vestirsi da donna a lavoro, in mezzo agli altri. Quindi l’idea di prepararsi per sé o voler definire una linea netta tra le nostre libere scelte e quelle introiettate mi pare un poco illusorio, anche perché non esistono concetti come decoro, bellezza, classe fuori dalla loro costruzione sociale, temporanea e localizzata. C’è sempre una tensione tra la nostra idea di noi, che vogliamo esporre al mondo, quanto questa è stata influenzata dai concetti che ci precedono, quanto noi stessi poi li modifichiamo e sovvertiamo a nostra volta, e le pressioni sociali più o meno evidenti a cui rispondiamo o ci ribelliamo. Questo tipo di dinamica crea un campo di forze che è unico per ognuno di noi, perché le variabili sono personali, il modo di interpretarle, resistervi e piegarle è personale. Viviamo in società, per me è chiaro che la nostra esperienza è sempre influenzata in modo sociale, questo non vuol dire che non sia “autentica”, o che sia del tutto autodiretta. 


Tutti questi discorsi, che sembrano appannaggio esclusivo delle donne, come si modificano (se si modificano) se invece parliamo di universo maschile? Perché è chiaro che non sono solo le donne che si preparano. Gli uomini lo fanno meno? Lo fanno di nascosto? Non lo rendono manifesto? Oppure semplicemente non gli diamo la giusta attenzione? 


Nel libro racconto una teoria di inizio Novecento, la “grande rinuncia maschile” che sostanzialmente data alla Rivoluzione francese l’abbandono da parte degli uomini (potenti, dunque quelli che dettano le regole della bellezza e maschilità corretta) di parrucche, tacchi e belletto: se ai nobili tagliano la testa, meglio evitare di sembrare tali. A questo va aggiunto che la Rivoluzione francese è il punto di rottura finale tra Ancient Regime e modernità, una faglia che si apre con le religioni riformate che vedono nel lavoro e nel successo un segno di grazia divina. Insomma: il lusso diventa scomodo, gli uomini razionali, capitalisti e logici si vestono di nero, non perdono tempo a imbellettarsi, ma solo a far soldi e godersi il favore divino. La bellezza dunque diventa questione ancora più unicamente femminile, derisa e considerata illogica. Questo non vuol dire che gli uomini non si preparino, ma che questo tipo di riproduzione del genere avviene per sottrazione: meno tempo, meno tessuti, meno colori, solo più morigeratezza, palette ristrette e pochi e pratici capi di abbigliamento. Uscire da questo recinto - che, converrai, è molto stretto - è sovvertire la maschilità, da cui tutti i commenti ai Pride in cui persone che vengono assegnate al genere maschile si vestono in modo “vistoso” o, dall’altra parte, il fatto che i soldati israeliani vogliano umiliare i Palestinesi indossando la biancheria femminile trovata nelle case che hanno demolito, perché il femminile è letto come tratto umiliante e svilente (nel senso che fa scendere nella gerarchia tra i sessi). Se non ci fossero regole altrettanto rigide per il genere maschile non potremmo avere sovversioni così palesi. Poi oggi direi che la questione del “consumismo insicuro”, cioè degli acquisti motivati dal desiderio di riconquistare autostima, è diventata trasversale. Le pubblicità di trapianti di capelli per uomini sono così sdoganate che le trovi in metro. 


Nel tuo testo hai disseminato tante domande, tanti inviti a rispondere a dei quesiti per cui serve riflettere. Ho provato anche io a dare delle risposte. Ad esempio, alla tua domanda «Quanto spazio mentale occupa la moda nella tua giornata?» ho risposto «zero, non ci penso mai»; oppure al tuo quesito «quanto tempo impieghi a prepararti?» ho replicato «più o meno mezzora se devo andare a un evento o devo uscire per lavoro; due minuti solo per infilare le scarpe se devo andare a fare la spesa o al tabacchino per ritirare un pacco». Per altre domande ho dovuto pensare più a lungo, e spesso non ho fornito risposte. Ad esempio, quando chiedi «quando ti vesti, a cosa pensi per prima cosa?». Ci ho pensato e ho lasciato la casella mentale vuota, per due motivi: il primo è che non ci ho mai riflettuto; il secondo è che, probabilmente, non voglio affrontare le implicazioni emotive di una possibile risposta. Penso a come apparirò agli altri? Penso di voler essere bella? Di voler fare colpo? Mi vesto in una certa maniera non perché io possa stare comoda ma perché gli altri possano ammirarmi, a discapito del mio benessere? Quanto di quello che faccio davanti allo specchio può dirsi davvero femminista – se mi metto le ciglia finte non lo sono, mentre se smetto di radermi le ascelle sì? Allora ti pongo io una domanda, palesemente provocatoria, ma che – per persone come te e come me, e come tante altre, che pensano in continuazione e fieramente si considerano overthinkers – può fornire un appiglio o una pausa: non è molto più femminista smettere di chiederci cosa sia femminista e cosa no quando ci prepariamo? Non è più femminista semplicemente fare quello che ci fa stare bene? 


Per me se la questione è complicata, allora magari è interessante continuare a pensarci, non perché si arrivi a una risposta, ma perché le implicazioni possono dirci qualcosa di noi. Un po’ come la terapia: parliamo per capirci, per diventare consapevoli di impliciti e pattern, per non cadere sempre nelle stesse trappole. Per me, per esempio, la questione se sia femminista o no pensare a cosa indossare non si pone molto, almeno non nei termini che definisci tu: ci penso, ma anche perché trovo in quella ricerca estetica uno spazio di espressione personale, pure mediata e pure influenzata dai mutamenti culturali, ma che accolgo nella sua ambivalenza - ecco forse ci vedo questioni di classe più complesse da cui districarmi. Tuttavia, trovo molto più complicato, per esempio, il concetto di self care, di prestare attenzione e tempo a sé - perché a un tempo riconosce che viviamo in contesti lavorativi e economici inumàni, dall’altra è solo un po’ di tregua alla fine della fatica, non tanto distante dal paradiso cristianissimo. Insomma anche in questi troubles ognuno e ognuna di noi vede qualcosa di diverso (per esempio tu in queste domande hai parlato molto di apparire agli altri, di sottrarsi alla pressione sociale, di maschera e apparenza, dirà pur qualcosa di te): individuare quale aspetto sia centrale può essere un’interessante chiave di lettura. 


Intervista a cura di Deborah D'Addetta.

Ringraziamo Sara Marzullo e la casa editrice 66thand2nd per la disponibilità.
Credits foto: Anthony De Matteo