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Una notte da rider
Il mestiere del rider è uno di quelli che conosco per esperienza diretta. Per parecchi mesi, dopo essermi trasferito a Londra, ho indossato il giaccone grigio-verde di Deliveroo e ho pedalato in lungo e in largo per l’area di Hammersmith e White City, consegnando pizze, hamburger, burritos e pad thai. E quindi lo sfinimento per le rampe di scale fatte a piedi e per gli ascensori guasti o troppo lenti, l’ansia dell’essere sempre in ritardo, l’irritazione per i clienti impazienti e i ristoratori arroganti, l’umiliazione per le mance minuscole, sono sensazioni a me molto familiari. Anche per questo motivo, legato alla dimensione personale, ho sentito particolarmente vicina l’atmosfera che Arianna Lentini, in arte Arlen – lei pure con un passato da ragazza delle consegne – ha tratteggiato nel suo graphic novel d’esordio Una notte da rider (Bao Publishing, 2025); così come ho apprezzato in modo molto intimo la critica, neanche troppo celata, al mondo della gig economy che, dietro un anglicismo intraducibile, camuffa le forme e i colori della schiavitù in salsa 3.0 e del precariato elevato a sistema.
Il protagonista del racconto è Malakia, aspirante game designer che sbarca il lunario lavorando come fattorino per il ristorante “The Pond”. Durante quella che doveva essere una normale serata di lavoro, un ruzzolone in motorino e un fortuito scambio di etichette su alcuni pacchetti, mettono in modo una serie di rocamboleschi equivoci. Senza alcun preavviso, Malakia si trova catapultato dentro un losco giro di spaccio e racketing: il ristorante per cui lavora, collabora con una banda di criminali, aiutandoli a smerciare i gamberi perla, un nuovo e potentissimo stupefacente. Il ragazzo avrebbe dovuto recapitare proprio uno di questi carichi, ma avendo confuso gli ordini finisce per consegnarlo alla persona sbagliata. Rendendosi conto dell’errore e temendo di essere stati volutamente ingannati, i trafficanti si gettano all’inseguimento di Malakia, il quale, una volta compresa l’assurda situazione in cui si è cacciato sarà costretto a trovare, con l’aiuto degli amici Igor e Zazzà, un modo per tirarsi fuori dai guai.
La trama, di per sé non particolarmente originale, è però impreziosita dalle scelte stilistiche di Arlen che tinteggiano un noir urbano dai tratti vagamenti distopici. L’ambientazione notturna, l’uso di colori acidi e scuri, il disegno dai contorni a tratti intenzionalmente abbozzati e imperfetti, gli spazi cittadini che mischiano scorci monumentali e montagne di ciarpame, modellano un’ambientazione allucinata e claustrofobica che pur partendo da elementi realistici, li proietta in una dimensione allegorica. Questo effetto è amplificato dalla presenza di personaggi antropomorfi: Malakia è l’unico umano in un mondo popolato da rane sciacalli, iene, galline. Tale espediente, da un lato, inibisce la volontà di immedesimazione dei lettori, producendo una maggiore distanza critica e allargando lo spazio di riflessione; dall’altro, sovraccarica i tratti identitari e caratteriali dei personaggi – i cattivi sono raffigurati come sciacalli, i proprietari del ristorante come rane che parlano una lingua incomprensibile, la cliente affettuosa e protettiva è una chioccia – aumentandone la funzione satirica e allegorica.
Mettendo in scena le peripezie di Malakia e mescolando in modo sapiente dispositivi narrativi ed estetici Arlen denuncia, in modo provocatorio, i rapporti di potere e le dinamiche disfunzionali del nostro mondo. L’autrice solleva in modo ironico e pungente una serie di interrogativi sociali, puntando l’attenzione sulla corruzione, la violenza e il costante bisogno di prevaricazione che regolano i rapporti tra gli individui: rane, sciacalli e avvoltoi sono tutti vittime di un potere che li sovrasta e li muove dall’alto come marionette.
In questa graphic novel però, il sottotesto politico è stemperato da un linguaggio scanzonato, pieno di movimenti leggeri e divertenti. I continui richiami intertestuali, che vanno dalle dinamiche dei videogiochi quest-driven in stile GTA a momenti onirici e stralunati che richiamano Il Grande Lebowski dei fratelli Cohen, intensificano il coinvolgimento emotivo e cognitivo dei lettori e delle lettrici, spingendoli/e a decodificare gli indizi e i vari input. In questo modo, si trovano a posizionarsi sullo stesso livello dei protagonisti, anti-eroi underground che rifiutano la logica asfissiante della società che li circonda: lavorando a cottimo e progettando videogiochi come fa Malakia, dedicandosi alla riparazione di vecchie macchine come nel caso di Igor, essi disinnescano la narrazione sociale deforme del nostro tempo, con i suoi canoni malati di successo e distinzione di classe.
Alla fine di Una notte da rider, per i protagonisti non c’è nessuna reale ricompensa – neanche quella tutta morale dell’aver aiutato la giustizia, visto che persino questa è incarnata da poliziotti corrotti e senza scrupoli –, ma questo non impedirà loro di guardare al futuro con ottimismo e speranza. Con la sua narrazione fresca e sferzante Arlen cattura il senso di smarrimento di una generazione tradita da un sistema economico che produce solo disuguaglianze e spinta ai margini dalla società, ma affatto doma e rassegnata alla sconfitta. Nonostante tutto, Malakia, Igor e Zazzà non perdono la fiducia in valori come la solidarietà e l'amicizia: essi sopravvivono agli sciacalli, all’avidità e alla brama di denaro a tutti i costi, a una lunga notte di ordinaria follia. Pertanto, per quanto coscienti di una certa nota mielosa e utopistica, ci fa comunque piacere lasciarci ammaliare e riscaldare dal rosso sole nascente che esplode nell’ultima vignetta.
Emiliano Zappalà
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