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«Non correte rischi, state meglio così come siete, mie care!» Deephaven, il romanzo di Sarah Orne Jewett, un classico di fine Ottocento

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Deephaven
di Sarah Orne Jewett
Mattioli 1885, marzo 2022. 

Traduzione di Livio Crescenzi e Tonina Giuliani

pp. 196
€ 12 (cartaceo)


C’è una particolare fascinazione nel ritrovare autori e – ancor di più – autrici del passato le cui opere nel tempo sono rimaste un po’ schiacciate dal peso dei grandi nomi che hanno fagocitato tutto il resto e riconoscerli fra altre pagine o accanto a quelli che ne condividevano il tempo, animando i circoli intellettuali, le pagine dei giornali, il dibattito culturale. Accanto a Mark Twain, Willa Cather, Henry James, Louisa May Alcott e, per ragioni di affinità letteraria, anche Kate Chopin ed Eudora Welty solo per citarne alcuni, il nome di Sarah Orne Jewett compare spesso e in tempi recenti si è fatto conoscere anche fuori dai circuiti accademici, oggetto di un’interessante riscoperta da parte dell’editore Mattioli 1885 che ne sta ricostruendo la bibliografia.

Alle due deliziose raccolte di racconti – La vigilia di Natale di Mrs Parkins e Il Natale di Betty Leicester, il cui riferimento al periodo natalizio non deve fuorviare più di tanto il lettore – si è aggiunta in questi mesi la pubblicazione del romanzo Deephaven, ancora una volta puntualmente tradotto da Livio Crescenzi e Tonina Giuliani, cui è affidata anche la breve ma utilissima introduzione al testo. Faccio una veloce digressione su questo, per sottolineare ancora una volta quanto sia fondamentale un anche minimo apparato critico bibliografico, specie per autori come per esempio la Jewett in cui diviene necessario per il lettore inquadrarne la produzione letteraria, il contesto culturale e le modalità con cui si sviluppa. Nella brevità dell’introduzione di Crescenzi e Giuliani, vi è quindi già moltissimo per contestualizzare l’opera di Jewett e avvicinarsi al testo con la dovuta consapevolezza, con gli strumenti per apprezzarne i riferimenti, i rimandi ad altri autori e opere, oltre alla complessità della traduzione e alle tematiche e spunti ricorrenti nei testi.

Il nome di Jewett, infatti, si inserisce tra le pieghe dell’American Literary Regionalism, lo sguardo pienamente rivolto alle narrazioni di provincia, la vita quotidiana nelle piccole comunità – spesso in declino – e l’interesse per il linguaggio vernacolare. Pur conoscendo molto bene il fermento della città di Boston e dei suoi salotti intellettuali, Jewett fa delle piccole comunità il centro nevralgico delle proprie narrazioni, non semplice sfondo ma protagonista delle vicende al pari dei personaggi che vi si muovono. E in questo caso Deephaven non poteva che essere anche titolo del romanzo, poiché tutto si svolge in quel villaggio sul mare, dentro le case e le vite delle persone che lo abitano, un microcosmo di difficoltà, tragedie e avventure, sentimenti, amicizie, felicità.
È stupefacente il romanticismo, la tragedia e l’avventura che si possono trovare in una tranquilla cittadina di campagna d’altri tempi. (p. 55)
È a Deephaven che le due amiche protagoniste, Kate ed Helen – la voce narrante – scelgono di trascorrere un’estate insieme, nella vecchia casa ereditata da una zia di Kate, immergendosi nella vita del luogo, conoscendone gli abitanti e, soprattutto, ascoltandone le storie. Sono appunto le storie degli abitanti del luogo a comporre la narrazione, un susseguirsi di personaggi e caratteri che aprono via via a racconti intimi e collettivi insieme, mentre le settimane scorrono e la permanenza delle due amiche si fa sempre più partecipe.
Genuinamente curiose di conoscere le persone e le loro vicende, senza troppo badare alle differenze sociali che li distinguono, in una decorosa ma progressiva libertà dai formalismi e dalle convenzioni cittadine:
Il comandante procedeva a vele spiegate su quanto avevamo sentito dire fosse il suo argomento preferito, e fu per noi un’enorme soddisfazione ascoltare quello che aveva da dire, che, una volta scritto, perde però molto, perché la voce, i gesti e il fervore del vecchio marinaio erano assai persuasivi. (p. 135)
Sono storie di marinai, di lavoro e sacrificio, di donne rimaste sole che ben si adattano alla vedovanza , stringono alleanze sincere con altre donne e si supportano nelle difficoltà senza mai dimenticarlo; vecchi pescatori abili nel decifrare i più piccoli segnali del cielo e del mare, mentre si abbandonano ai ricordi, al racconto, al trasmettere il proprio sapere; storie di famiglie decadute, di vecchi rancori o, ancora, di gioie semplici, di eccitazione per un evento che scuote la quotidianità. Un luogo ancorato al passato, dove il tempo pare essersi congelato, mentre lo sguardo esterno delle due amiche si posa sui segni del declino, sulla crisi:
Era come se tutti gli orologi di Deephaven – e tutti i suoi abitanti con loro – si fossero fermati anni prima, e la gente avesse continuato a fare più e più volte quanto era stata indaffarata a fare l’ultima settimana della propria esistenza priva di ambizioni. I loro abiti s’erano conservati in modo stupefacente, e non avevano bisogno di guadagnare altro denaro dal momento che le occasioni per spenderlo erano così scarse. (p. 62)
Sono moltissimi gli spunti di riflessione che le storie di Jewett inducono nel lettore, a partire dal discorso sul senso di comunità, sulla progressiva perdita di antichi luoghi e stili di vita, sui rapporti umani. E, tra gli altri, sul femminile, al centro sempre delle opere di Jewett: le sue donne sono determinate e piene di grazia, capaci di uscire dalla sfera domestica e avventurarsi nel mondo, molto spesso scegliendo l’indipendenza al matrimonio.

«Non correte rischi, state meglio così come siete, mie care!» dice direttamente un personaggio in Deephaven alle due giovani amiche, ma di sentimenti e consigli simili è disseminata l’opera tutta di Jewett, che ben conosceva lei stessa la libertà di potersi muovere indipendente nel mondo e l’importanza delle amicizie femminili. Immediati i riferimenti al Boston marriage, una pratica piuttosto frequente all’epoca, con cui indicare due donne non legate da parentela che sceglievano di non sposarsi e vivere insieme, sostenendosi l’una con l’altra. In Deephaven il riferimento è ancora più profondo e, verso l’epilogo, è la stessa Kate a riflettere su come sarebbe bello rendere permanente la loro situazione:
Una sera Kate, ridendo, mentre ce ne stavamo a chiacchierare accanto al caminetto ed eravamo particolarmente contente, propose di imitare le Dame di Llangollen e d’allontanarci dalla vita di società e dalle sue distrazioni. (p. 182)
Le “Dame di Llangollen”, Lady Eleanor Butler e Miss Sarah Ponsonby, che divennero celebri per la loro fuga in Galles, a Llangollen appunto, dove andarono a vivere insieme per sfuggire alle rispettive famiglie che ne osteggiavano la relazione e lì condussero una vita sociale assai intensa, facendo del luogo un vivace centro intellettuale. Kate ed Helen, scherzosamente oppure no, paiono accarezzare l’idea di continuare a condividere una casa, libere di muoversi nel mondo senza vincoli dati dal matrimonio. Forse è solo il pensiero fugace suscitato dalla malinconia di un tempo insieme che sta giungendo al termine, forse un desiderio più profondo. La stessa Jewett, mai sposata, scelse di condividere la vita con un’intima amica, dopo che questa rimase vedova. Ciò che sarà dopo la partenza da Deephaven non è dato sapere e non importa: resta la fotografia di un’estate, dell’intimità che lega due amiche libere e indipendenti, della coralità di storie che ne hanno scandito i giorni e, da ultimo, della nostalgia di una stagione che va finendo. L’estate, la gioventù.
[…] alla fine giunse il momento per la mia amica di riassumere il governo della casa di Boston, e di riprendere la vita di città. Devo ammettere che ne avevamo un certo timore: ci sorprese scoprire quanto poco in fondo tenessimo a quel tipo di vita, e quanto uno possa cavarsela benissimo anche se privo di tante cose che invece ritiene indispensabili. (p. 181)


Di Debora Lambruschini