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Salmo 44
di Danilo Kiš
Adelphi, 2025
Traduzione di Manuela Orazi
pp. 135
€ 19,00 (cartaceo)
€ 13,99 (ebook)
La speranza è una necessità. Perciò dobbiamo inventarcela. […] Dovete vivere. Il vero morto è un uomo senza speranza. […] Attiratela, riscaldatela. Riportatela in vita con la respirazione artificiale, con l’inganno o addirittura con la forza. (p. 59)
Uscito per la prima volta nel 1962, questo breve scritto di Danilo Kiš colpisce con un inizio in medias res che catapulta direttamente al cuore di una situazione drammatica, e nel turbine di pensieri e percezioni della
protagonista, Maria, il cui stesso nome viene esplicitato solo dopo alcune
pagine, obbligando il lettore a porsi fin da subito molte domande. Si riesce a
comprendere che c’è in ballo qualcosa di
vitale: un estremo tentativo di fuga
dal campo di concentramento, quando ormai si sentono in lontananza i cannoni
degli Alleati. È la compagna di baracca, Jeanne, a organizzare tutto, mentre
la protagonista si dibatte tra le paure, i dubbi, e i sensi di colpa: da un
lato, infatti, preme forte il desiderio di salvare Jan, il suo bambino nato da
poco, e di ricongiungersi a Jakub, che la attende come un miraggio nella sua
coscienza, dall’altro la prospettiva concreta di morire come chi ha tentato
prima di loro, e la necessità di abbandonare Polja, ormai troppo malata per
affrontare spostamenti.
In queste ore convulse, intermittenze improvvise di ricordi dal passato prossimo o remoto ricostruiscono a brandelli la vita di Maria, fuori e dentro il campo. Tutto rimane però vago, confuso, così come confusa e incerta è la mente della protagonista, sospesa tra il sonno e la veglia, ma si potrebbe dire anche tra la vita e la morte.
Era talmente assorta in sé stessa che aveva difficoltà a ricostruirne la cronologia, a malapena sapeva cosa era accaduto e quando, come se tutti i tempi si fossero fusi in uno solo. Soprattutto le sembrava impossibile isolare da quel groviglio di avvenimenti una storia particolare, […] indistinguibile da quella massa informe e atemporale in cui la sua coscienza vagava senza un ordine apparente. (p. 42)
I ricordi si assiepano, si sovrappongono, si contaminano, assecondando il fluire degli slanci e delle angosce di
Maria, così come i piani temporali,
che poco alla volta si stratificano,
si alternano in modo imprevedibile. Se il momento della narrazione è quello che
precede la fuga (poche ore infinitamente
dilatate) e il periodo storico quello che precede la liberazione del campo,
in realtà il tempo della coscienza
si articola come una bergsoniana
successione di istanti: l’esperienza ad Auschwitz, la selezione da cui
Jakub l’aveva salvata, la morte delle compagne di baracca, gli esperimenti medici
del dottor Nietzsche, il trasferimento a Birkenau… o ancora prima, all’inizio
della guerra, la visita alla cugina Aniela nascosta in una bara, o la consapevolezza,
violenta e improvvisa, del suo essere ebrea («fu allora, al ritorno da scuola, che Ilonka Kutai le disse: “È tuo padre
che ha crocifisso Gesù Cristo”», p. 75). Tutto a tratti si sfoca, a tratti
invece riemerge al presente della memoria.
Salmo 44 è un’opera giovanile di Danilo Kiš, e a tratti i riferimenti colti che costellano il testo rischiano di inceppare il meccanismo dell’emotività,
ma nel complesso si avverte già la forza potente che scorre tra le parole, il
tentativo di bilanciare la ricerca lessicale con le finalità espressive. Solo a
tratti, si avverte una lieve mancanza di equilibrio, quell’eccesso nella descrizione di cui era consapevole lo stesso Kiš e
che troverà invece nuova misura nella sua produzione successiva.
Quello
che viene offerto al lettore è un
romanzo che parla di corpi, estremamente
sensoriale, in cui i sentimenti hanno sempre anche una risonanza fisica. Non
a caso la prosa è attraversata dal filo
conduttore del sangue (quello mestruale, quello che macchia le lenzuola
della giovane che perde la verginità, quello che scorre turbinoso nelle vene e
ottunde il pensiero nel momento dell’angoscia, quello che lega la madre al
figlio appena nato). Il sangue è ciò che
associa Eros e Thanatos, inestricabilmente connessi all’interno del volume:
sulla storia d’amore, improbabile e tenace, tra Maria e Jakub incombe infatti l’ombra
della morte, essenza più profonda del campo di sterminio, che continuamente li
minaccia. Ma il sangue è anche, prima di
tutto, quello ebraico, la matrice della condanna, l’elemento contaminante,
l’alibi escogitato dalla ferocia nazista, ciò che legittima nella mente
perversa dei torturatori le terribili sperimentazioni in cui Jakub si trova suo
malgrado coinvolto («La personale
interpretazione delle norme etiche di una professione deve cedere al carattere
totale di questa guerra», p. 47, insinua
il dottor Nietzsche, «l’Ippocrate
nazista, stimato autore di esperimenti sulle “cavie umane” ed eminente
specialista di questioni razziali», p. 43).
Il lamento, l’accusa del Salmo 44 a cui fa riferimento il titolo, rimanda alla crisi del popolo d’Israele, che implora l’aiuto del suo Dio nel momento della sofferenza. Ma Danilo Kiš sceglie una prospettiva diversa, traendo spunto da un fatto di cronaca: l’ultima parte del volume si sofferma infatti sui mesi, e poi gli anni, che seguono la fuga dal campo. Così, dopo lo stallo, ecco che il tempo ricomincia a scorrere rapido per chi è tornato alla vita. Solo in ciò che resta del lager, nel museo di Auschwitz, dove Maria, Jan e Jakub tornano in visita sei anni dopo, questo ricomincia a cristallizzarsi, intorno a reperti che certificano la barbarie consumata in quel luogo.
L'Übermensch è la derisione della morte. Lui con le ossa produce il concime, con la pelle borsette, portafogli e paralumi, con i capelli materassi e cuscini. Con la morte si sacrificano e svaniscono solo la vanità e la nullità dell'uomo. «Ti insegno la vita!» – così parlò Zarathustra. (p. 132)
La satira sferzante nei confronti delle pretese dell’Übermensch si scontra quindi nel lager con due diverse istanze: da un lato la tendenza alla banalizzazione superficiale dei turisti in visita, già orientati verso una sorta di voyeurismo della memoria (in questo, il volume anticipa di molto il più recente Serge di Reza, che indaga temi affini), dall’altro il dolore sordo, non ancora sanato e forse mai sanabile, dei sopravvissuti. Mentre il museo, per sua stessa conformazione, suggerisce una riflessione universale – più o meno colta dai visitatori –, per i protagonisti il ritorno ad Auschwitz è una questione fortemente personale, l’occasione per una resa dei conti con un passato che, pur nello slancio verso il futuro, nell’attaccamento viscerale alla vita riconquistata, non può che essere sempre irrisolto.
Carolina Pernigo
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