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Come nasce un capolavoro: "Il velo di Lucrezia" di Carla Maria Russo

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Il velo di Lucrezia 
di Carla Maria Russo 
Neri Pozza, maggio 2025

pp. 352 
€ 20,00 (cartaceo) 
€ 9,99 (ebook) 

Sin dai tempi de La sposa normanna (2004), nei libri di Carla Maria Russo i lettori riscontrano un perfetto equilibrio tra il rigore della ricostruzione storica e la piacevolezza della finzione letteraria. Ciò accade anche nel caso del suo ultimo romanzo, Il velo di Lucrezia, che, coniugando le suggestioni della narrativa, della storia e della storia dell’arte (anche in senso teorico), racconta quasi per intero la biografia del pittore fiorentino Filippo Lippi

Si confermano le doti stilistiche dell'autrice: la scrittura avvolgente e immersiva contribuisce in modo determinante a ricreare il contesto culturalmente prodigioso della Firenze quattrocentesca, anche attraverso l'uso frequente di espressioni dialettali, disseminate all'interno dei dialoghi che scandiscono il racconto dell'infanzia e della giovinezza di Filippo. 

Russo descrive dunque le vicende di una vita, ma, più ancora, le tappe di una passione impetuosa: quella del protagonista per la pittura, l’attività che lo ha rapito sin dalla più tenera età in modo così totalizzante da suscitare in lui persino il dubbio di essere «insediato dallo spirito di qualche defunto» (p. 30).

Perché Filippo disegna in continuazione. Come se le sue mani non potessero o sapessero fare altro. E disegna di tutto. (p. 28) 
Disegna ovunque trovi una superficie. (p. 29)

Questo desiderio bruciante di disegnare lo porta, ancora bambino, ad avere le idee chiarissime sul proprio futuro («Voglio fa’ il pittore, come i lavoranti della bottega del Bicci», p. 57) e ad apprendere precocemente aspetti anche molto tecnici del mestiere, di cui ci vengono spiegati con semplicità i dettagli in diverse parti del testo. 

L’amore per il disegno va di pari passo con quello per la fama. Ammiratore dei grandi maestri della pittura fiorentina più o meno a lui contemporanei ('i giganti', come li chiama più volte), coniugando teoria e pratica, studio e talento naturale, Filippo aspira a emularne le opere e a uguagliarne la notorietà, per conquistare la gloria che vince il tempo e rende immortali: 

Un giorno, pensa, non so quando, realizzerò un’opera d’arte così sublime che sarà destinata all’eternità: il mio capolavoro. E attraverso di essa io stesso verrò ricordato in eterno e sfuggirò alla morte. (p. 118)

Frate contro la propria volontà, ma gaudente e donnaiolo come certi chierici delle novelle del Decameron, nel contesto del convento cui è stato oblato da sua zia Lapaccia nel 1414, Lippi «inizia la sua scalata» (p. 106), diventando assistente di Masaccio, che lavora alla realizzazione della cappella Brancacci. 

Ma è anni dopo a Prato (nel 1456), in un altro luogo sacro, il monastero di Santa Margherita, che si compie il suo destino di pittore e, insieme, di uomo. 
Qui conosce la splendida e giovanissima Lucrezia Buti, che, scandalosamente, diventa prima la sua amante, poi sua moglie, ma soprattutto la sua Musa ispiratrice.  
Alla descrizione della sua bellezza celestiale sono dedicate alcune delle pagine più raffinate del romanzo, anche perché proprio dalla contemplazione del volto perfetto di Lucrezia nasce l'opera più celebre di Lippi: la Madonna con bambino e due angeli (inizialmente detta La Lippina), che sintetizza tutti i valori ai quali Filippo ha consacrato la sua intera esistenza («Il senso di una vita intera racchiuso nel volto di quella fanciulla», p. 208)

Dopo l’incontro con la giovane donna, si percepisce un netto cambiamento nel ritmo e nelle modalità del racconto: alla raffigurazione movimentata della giovinezza del pittore, vissuta tra le strade e le botteghe di una Firenze trafficata e “moderna”, si sostituisce una narrazione più psicologica e, di conseguenza, più lenta; non proiettata verso l’esterno, sulle azioni provocate dal carattere scanzonato ed esuberante del protagonista, ma focalizzata sulla sua interiorità, sui complicati ragionamenti che lo isolano dal resto del mondo, persino dall’amico di sempre, Cosimo de’ Medici, e, paradossalmente, dalla stessa Lucrezia, costringendolo a concentrarsi in modo esclusivo prima sulla realizzazione e poi sulla contemplazione del suo stesso dipinto. 

Del resto, dall’assidua frequentazione con gli umanisti dell’epoca, Filippo ha imparato che l’esercizio dell’arte e della letteratura non è «l’ozioso passatempo di gente stravagante» (p. 101), ma un lavoro da cui trae beneficio l’umanità tutta. Dietro a ogni capolavoro si cela infatti un messaggio potente di bontà e bellezza, che non può che giovare a ognuno di noi: 

Perché è questo, in fondo, il senso ultimo, l’utilità pratica di un capolavoro: un dono all’essere umano di ogni epoca, perché contemplare la bellezza fa bene al cuore. Nutre i buoni sentimenti che in esso albergano. E alimentandoli, li moltiplica. (p. 194)

Nell'ultima scena del libro (che coincide con la prima, data la struttura circolare del testo), è possibile apprezzare una dettagliata descrizione del tanto amato dipinto, che, riassumendone le principali caratteristiche iconografiche e iconologiche, consente al lettore di riflettere ancora una volta sulla maestosità e l'immortalità di una vera opera d'arte. 

Elide Stagnetti