I nostri ultimi giorni selvaggi
di Anna Bailey
Feltrinelli, maggio 2025
Titolo originale: Our Last Wild Days
Traduzione di Elena Cantoni
pp. 343
€ 19,00 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
Jacknife, nella Louisiana del Sud, è un paese consumato dal tempo,
e dalle acque chimiche della fabbrica di plastiche che lentamente intossicano
gli abitanti, a livello tanto fisico quanto psico-emotivo. Gli acquitrini
circondano le case, creano un reticolo di vie inesplorate, dove i miasmi che si
levano dai fondali stagnanti celano a fatica molti pericoli, animali e non
solo. Si tratta di un luogo in cui la quotidianità
è ancora satura di tradizioni antiche e
misteriose, e in cui nelle paludi il fantasmatico rugaru reclama la sua quota di sangue, spaventando i bambini e
animando le narrazioni degli anziani. Proprio con quelle paludi, e con quelle
leggende, è impastata la vita dei fratelli
Labasque, che conducono un’esistenza
liminare, isolata dal resto
dalla comunità, che li giudica per le loro abitudini e le loro stranezze, ma
non può comunque fare a meno degli alligatori che loro cacciano e allevano.
Da molti anni, ormai, Dewall, Beau e Cutter vivono alla giornata, arrancando e accettando compromessi pur di portare a casa il minimo necessario. Lo sa bene Loyal May, che un tempo era la migliore amica di Cutter, almeno fino a quando un brutto incidente con uno degli alligatori, e una reazione rabbiosa e carica di rancore, non le ha definitivamente allontanate. Ora, a dieci anni di distanza, Loyal torna in città per assistere la madre in difficoltà e collaborare con il giornale locale, il Bayou Leader, ma spera anche di poter finalmente appianare le cose. Non immagina che sia troppo tardi: il cadavere di Cutter viene infatti trovato nel fiume, e la giornalista non può credere alla prima interpretazione delle forze dell’ordine, che ipotizzano si sia tolta la vita. Lei infatti, anche dopo anni, ricorda Cutter come una lottatrice («Cutter non lasciava mai niente in sospeso. Non se ne sarebbe andata senza dire addio», p. 51) e l’indagine sul caso assume ben presto per lei una dimensione fortemente personale.
Oggi, Cutter è morta, e non sapere come o perché la snerva. Ha bisogno che la morte sia comprensibile, la vuole contenuta, non libera di galleggiare in giro, come una macchia di petrolio sul pelo dell'acqua che rasenta le fenditure della sua vita. Cutter è morta, e a dispetto di tutto una parte di Loyal vuole essere qui, dove almeno di lei resta qualcosa. (p. 51)
I sensi di colpa che la divorano, la
consapevolezza di aver contribuito all’emarginazione dell’amica, attraverso un
articolo feroce e ingiusto, l’impossibilità (e la mancanza di forza) di fare
ammenda costituiscono un’esca facilmente infiammabile per una ricerca che
inizia a rasentare l’ossessione: chi
poteva avercela tanto con Marianne da ucciderla? Di chi era il bambino che
segretamente portava in grembo? Per quale motivo aveva rubato dei soldi al fratello
maggiore, Dewall, non certo noto per la sua temperanza, tanto che la sorella lo
chiamava “il diavolo”?
Loyal è convinta che il segreto si nasconda all’interno della
famiglia Labasque, nella baracca decadente che Cutter divideva con gli unici
parenti che le erano rimasti («l’affetto,
in casa loro, è di quelli che lascia i lividi, e l’ha resa forte», p. 19).
Beau, il fratello minore, è dipendente da metanfetamine,
il maggiore invece si è lasciato coinvolgere in una serie di traffici loschi che coinvolgono un
famoso pregiudicato, Dirk Greenacre, e il suo gruppo di sbandati, i Ragnarok
Boys. Poco alla volta, però, le ricerche aprono piste inaspettate, che portano
Loyal e il giovane collaboratore, Sasha, ad avventurarsi nel cuore delle
paludi, all’inseguimento di un mistero
che sembra ben più oscuro e complesso di quanto inizialmente potesse
sembrare. «C’è qualcosa tra noi. Qualcosa
di impuro» (p. 160) mormora Lizabeth, considerata la strega del paese, per
mettere in guardia i due giovani, che sono però ormai troppo coinvolti per potersi tirare indietro.
Si inizia a intuire un rovesciamento, che si può attendere chi abbia già letto il romanzo di esordio di Anna Bailey e sappia che l’autrice ama, e qui si può dire letteralmente, confondere le acque. Chi sono veramente i cattivi, ci si chiede a un tratto? All’interno dell’opera le forze dell’ordine appaiono compromesse, corrotte e violente, mentre i disadattati sono quelli che si fanno portatori di un messaggio di umanità.
L'immagine di tutte quelle persone che battono i boschi per cercare Marcie Bordelon [una ragazzina scomparsa] le fa pensare che c'è una quantità di persone, da quelle parti, pronta a levarsi la camicia per te, anche se è l'ultima che gli è rimasta. I suoi colleghi di Houston erano troppo critici della gente del Sud. Forse anche lei. Sono brave persone, quelle di qui, il che rende gli eventi recenti ancora più inquietanti. (p. 136-137)Ancora una volta Bailey ci immerge in una comunità bigotta e ipocrita, dove la fede invece che strumento di salvezza e condivisione diventa trappola e fonte di pregiudizio. E poi c’è la droga, che stordisce le coscienze e ottunde la mente dei miseri, permettendogli di evadere dai confini stretti della città, e delle loro esistenze. Ciascuno è in cerca di un proprio credo, qualcosa che diventi consolazione rispetto a una realtà soffocante, e di questo approfittano i potenti e i senza scrupoli, che sfruttano le debolezze e la superstizione delle persone per tenerle al guinzaglio.
Al fondo, il folklore consiste sempre di un avvertimento. Evita questo luogo, non fidarti di questa gente, obbedisce alla mamma e al papà, se no arriva il babau. Da molti punti di vista, è uno strumento di controllo. […] Se metti paura a qualcuno, diventa più facile manipolarlo – e la gente di Jacknife è superstiziosa. (188-189)
Non è un caso allora che i personaggi più positivi siano quelli che sono realmente connessi alle credenze antiche, legate alla terra, più attente all’umano. Il violento, ruvido Dewall, si rivela l’ultimo retaggio di un’epoca che sta finendo, il diverso che deve essere espulso perché ricordo incarnato di qualcosa che non si vuole più vedere, o accettare. Lui è colui che vive gli «ultimi giorni selvaggi», prima che vengano travolti da una civiltà che inquina, avvelena e distrugge, dimentica di ogni forma di bellezza. «Quando vedono qualcosa di selvaggio, gli uomini cercano sempre di sottometterlo» (p. 313), e questo vale per i paesaggi, per gli animali, ma anche per gli altri esseri umani. Così la vitalità intensa di Marianne poteva essere troppo per chi è abituato ad ottenere ciò che vuole e dalle donne si aspetta soprattutto docilità e mitezza. E la sua perdita spalanca un vuoto che solo le anime più sensibili, più in sintonia con l’ambiente circostante, sono in grado di riconoscere.
Marianne Theresa Labasque è una piuma. Dov'è andato tutto quel vigore, la forza dei suoi pugni, la potenza della sua voce: cosa ne è stato di tutta la sua energia? Sasha si chiede se è così che si formano i fantasmi. In ogni cigolio del legno, ogni fruscio dei rampicanti che filtra dalle vetrate, ogni battito d'ala dei corvi annidati sulle travi del soffitto, lui sente Cutter che attraversa la chiesa, tenendo il passo con la sua bara. (p. 185)
Anna Bailey conferma, in questo suo secondo romanzo, di avere non solo una bella penna, ma anche un’ottima capacità di costruire intrecci romanzeschi, e di tratteggiare personaggi sfaccettati e profondi. Non riducibile solo alla categoria del thriller, il testo indaga anche il tema del lutto, della colpa e del riscatto, del concetto di famiglia (ristretto, o allargato a comprendere la comunità), e ricostruisce con precisione le dinamiche, a tratti asfittiche e meschine, di una cittadina dell’America rurale, legata in maniera viscerale, ma anche contraddittoria, al paesaggio in cui si inserisce. In un’estate che si fa boccheggiante, al lettore sembrerà quindi di sentire sulla pelle l’umidità della palude, di intravedere intorno a sé il baluginare segreto degli occhi degli alligatori.
Carolina Pernigo
Carolina parla di I nostri ultimi giorni selvaggi anche nella nostra puntata del podcast - ecco dove, per la precisione:
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