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"Basta un'immagine per contenere un uomo". Il rapporto viscerale e conflittuale tra fratelli in "Serge" di Yasmina Reza

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Serge
di Yasmina Reza
Adelphi, 2022

Traduzione di Daniela Salomoni

pp. 186 
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

 
Basta un’immagine per contenere un uomo”, si dice a un certo punto del nuovo romanzo di Yasmina Reza. Ed è sicuramente attraverso le immagini, ma anche attraverso i dialoghi, o i frammenti di ricordi che riemergono dall’ intreccio e dalla memoria della voce narrante, che viene costruita la narrazione. Al centro di tutto un rapporto tra fratelli: il maggiore, Serge, dal carattere impossibile, chiacchierone ed egoriferito, permaloso e spesso polemico; Jean, quello di mezzo, colui che ci accompagna nell’esplorazione di una fitta rete di rapporti famigliari; e infine Nana, che è stata la piccola di casa ed è ancora viziata e un po’ sentenziosa. Ormai cresciuti, e neanche da poco, i tre continuano a essere diversissimi e molto legati, in perenne conflitto, ma anche visceralmente attaccati l’uno all’altro da una “connivenza primigenia”. 
So bene che Serge e Nana appartengono da tempo all’umanità matura come si presume che vi appartenga io stesso, ma è una percezione superficiale. Nel profondo io sono sempre quello di mezzo, Nana è sempre la Cocca di mamma e papà, la smorfiosetta, […] mio fratello è sempre il Primogenito, il condottiero con […] un sorriso in grado di esorcizzare la morte, è lo spericolato; […] io sono il gregario, il senza-personalità. […] La trama dei nostri legami fraterni è questa. È la giungla fatta con le tende, gli sbarchi, i lanci col paracadute, i sacrifici e Nana imbavagliata, è l’inferno birmano, sono, prima che la tentazione erotica venisse a turbarne la purezza, tutte le nostre ore di gloria e di sofferenza. (p. 24, 25)
L’alta cifra qualitativa del testo non è data dalla trama, di per sé esile, articolata intorno a eventi minimi, quanto dalla scrittura di Reza. L’autrice infatti riesce a essere corrosiva ma non dissacrante, e ha rispetto per i propri personaggi, pur mettendone in luce le debolezze e le contraddizioni. La voce narrante è in grado di fare osservazioni di grande acume, ma senza mai prendersi troppo sul serio, e l’ironia che attraversa il testo non sacrifica momenti di profonda pietas verso gli individui che si muovono sulla scena.
In un procedere non lineare, che asseconda i fatti, ma maggiormente i sussulti della coscienza, un uomo alle soglie della sessantina si interroga sul proprio presente, ma anche sul passato, sulle dinamiche che l’hanno spinto a diventare ciò che è (e con lui su ciò che ha definito Serge e Nana), sonda le profondità della propria famiglia, il rapporto con l’ebraismo e con la Storia, le radici di certe sussistenti inquietudini.
Viene evidenziata in particolare una contrapposizione tra lo smanioso Serge, sempre in movimento, a volte disordinato e scomposto, ma intensamente vitale, e l’immobilismo di Jean, che non ha saputo risolversi nella vita e trova parziale consolazione nell’occuparsi saltuariamente del figlio della sua ex, o nell’assistere lo zio ormai moribondo, ma associato a lontani ricordi felici.
Unico senza una famiglia propria, Jean è tormentato da un senso di solitudine intermittente:
Quando torno a casa non c’è nessuno ad aspettarmi. Io che ho orientato la mia vita nella direzione opposta, mi sento idiota quando a sorpresa mi prende il rimpianto di un focolare domestico animato, dell’intimità, di un tempo ritualizzato anche solo per lo svolgimento dei compiti basilari. (p. 47)
Eppure la sua condizione irrisolta è anche la base del suo sguardo lucido su ciò che lo circonda. È lui che percepisce le dissonanze e le fa risaltare, pur senza aver mai la pretesa della verità assoluta, e sottolineando la parzialità del proprio punto di vista. È lui, del resto, che si sente in qualche modo responsabile degli altri, verso le cui fragilità avverte un forte senso di protezione. Questo vale soprattutto per Serge, che appare sempre di più in balia di se stesso, incapace di gestire da solo i propri difetti e le conseguenze che gli portano sul piano sociale e relazionale.
Le tensioni sotterranee che oppongono Serge e Nana, dalle personalità agli antipodi, esplodono in occasione di un viaggio di famiglia ad Auschwitz. Se la tematica è delicata e rischia di diventare facilmente scivolosa o grottesca, come prova il racconto della gita scolastica della nipote Margot fatta a Jean prima della partenza, Reza non ha paura di toccare tasti scomodi, mostrando tutte le incongruenze dei “viaggi della memoria” attraverso la voce sempre lucida del suo narratore. Auschwitz può essere infatti luogo di esperienze di grande intensità, ma anche trionfo del “kitsch nazionalista”, e il protagonista a tratti non riesce a capire se gli risultano più claustrofobici gli spazi angusti della camera a gas, o l’accatastarsi sudaticcio di “gente in tenuta semibalneare, canottiere, sneakers colorare, pantaloncini, tutine, abitini a fiori” (p. 87).
Il viaggio nel campo di sterminio è occasione, per l’autrice, di condurre una riflessione tutt’altro che superficiale sulla memoria, intesa nella duplice valenza di individuale/famigliare e collettiva. Per poter avere un’utilità, un effetto, la conoscenza di quel che è stato deve affondare nella coscienza, andare oltre la superficie a cui troppo spesso si limita.
Riprendiamo a girovagare nei vialetti del campo. Ricordati. Ma perché? Per non rifarlo? Ma lo rifarai. Un sapere che non è intimamente in relazione con sé è vano. Non ci si deve aspettare niente dalla memoria. Questo feticismo della memoria è un simulacro. (p. 98-99)
In Serge, Reza riesce a mostrare una compassione senza pietismo tanto per i vivi quanto per i morti. E se i conflitti tra i fratelli si esacerbano proprio nel momento in cui sarebbe più importante invece uscire da sé, mettere da parte il proprio ego, il filo invisibile che tiene legata la famiglia resiste, pronto a evitare la dispersione nel tempo e nello spazio. Per questo, e per la vividezza con cui vengono tratteggiati i profili di personaggi unici e indimenticabili nella loro imperfezione, il romanzo funziona e un po’ commuove, grazie anche alla grande abilità narrativa che rivela.
 
 
Carolina Pernigo