di Manuela Maddamma
pp. 168
€ 15 (cartaceo)
Ci sono dei giorni che brilleranno indelebili, poi, in cima agli scaffali dei ricordi, giorni in cui piano piano l'orizzonte si fa più nitido, giorni che porterà con sé per il resto della vita. Per me quella stagione è stata la tarda estate del 1972, il sole malinconico e feroce del Salento. (p. 15)
Il primo atto di L'affascino prende corpo in Salento: un antropologo accantona Roma per studiare a Tricase il tarantismo, culto che vede nel morso di una tarantola la causa di convulsioni curabili solo attraverso una danza.
Avevo scelto Tricase perché sulla carta geografica profumava di estremo. Mi sembrava il giusto eremo in cui isolarmi. (p. 16)
Emilio Della Torre avvia un'avventura laboriosa pur di colmare il vuoto causato dalla fine di una relazione e la ricerca, già avviata ai tempi dell'università, ha valore di missione. L'uomo scopre un Salento ermetico, invadendo un luogo che protegge un culto antico, ridimensionato dalla comunità a rito di grande folklore per scacciare i ficcanaso.
Emilio investiga insieme a Fedele, cieco da un occhio, a caccia di una rivelazione, e raccoglie piccoli o grandi indizi che suggeriscono che la strada è giusta, la scoperta vicina. Successivamente incontra Mira, custode di credenze oscure. Un rapporto carnale tra i due porta alla gravidanza di Mira, interrotta tragicamente da una rovinosa caduta; dopo una serie di incomprensioni, l'uomo riparte per Roma e mette da parte quelle che sembrano essere velleità inconsistenti.
Se la prima parte del romanzo, convulsa e avventurosa, si sviluppa principalmente negli assolati ambienti esterni salentini, la seconda invece è ambientata nel 1988, negli interni romani, nello specifico nell'abitazione di Emilio, ormai stabile nella Capitale.
Con una lettera, Mira chiede a Emilio di ospitare a Roma sua figlia Irma, nata qualche anno dopo la tragedia e pronta a far parte di una prestigiosa accademia di danza. La presenza di Irma destabilizza Emilio, che non ha mai scordato l'estate con Mira. L'uomo intercetta le paure dell'ospite, che a un diario confida di essere angosciata da una presenza, connessa a sua madre e che li sta cercando.
Questa è la trama di L'affascino, favola nera viscerale, di riti e misteri, moniti, visioni, in cui Manuela Maddamma rielabora gli studi di dottrine esoteriche e mistiche e la tradizione magica del Sud più profondo. L'autrice esplora un fenomeno affascinante come quello del tarantismo con una storia, che fa la sponda tra due epoche, dal fascino consistente, favorito dalle atmosfere oniriche e da quelle più ferali dell'horror gotico. Il testo fonda la sua tensione su presentimenti, non detti, allusioni, e poi credenze popolari, superstizioni. In L'affascino quindi la componente horror vive delle suggestioni di un Salento inestricabile e misterioso (affiancate successivamente da quelle della Roma di fine anni ottanta) che prendono il sopravvento su una trama frastagliata che fornisce risposte di non facilissima lettura.
L'approccio narrativo è peculiare. Manuela Maddamma racconta da un punto di vista maschile e profano, creando quindi un duplice distacco tra chi riannoda i fatti e quello che sta avendo modo di scoprire. La prima persona è quella di Emilio, vincolato a uno schema di valori e conoscenze razionali ma affascinato da un male ignoto e indecifrabile. L'uomo non può capire del tutto un fenomeno ma ne resta soggiogato.
Volevo fare. Costruire, vivere la mia avventura. Ero uscito, ma mi sentivo impotente, con quel sole sulla testa, la stanchezza e la sete e quel paese intorno la cui storia mi era preclusa. Ancora non trovavo una direzione. (p. 25)
La controparte è personificata da due donne e dal mistero che sembrano custodire – l'affascino sembra costruirsi metaforicamente proprio nella tensione dell'uomo verso ciò che di loro non può comprendere. Il testo sembra quindi suggerire una incomunicabilità tra due mondi, quello maschile e razionale, in cui tutto può essere classificato, spiegato, dimostrato, e il secondo, femminile e misterioso, legato al fatalismo, all'inevitabile.
Scrivendo di Mira e Irma, è interessante notare l'indizio di un legame inestricabile - di più non è possibile rivelare - a partire dai nomi, anagrammatici. Emergono comunque differenze essenziali tra le due figure: Mira è enigmatica, violenta nelle sue espressioni, incontenibile; Mira è più trattenuta e sembra sopportare interiormente il male di cui cade vittima. A unirle, più del sangue, è il dolore.
Come anticipato, la ragazza, che giunge a Roma quattordicenne, si affida a un diario, in cui segnala la crescente presenza di una creatura proveniente da un mondo altro, inaccessibile ai più, e avvicinabile solo da chi, in pegno, sembra obbligato a rinunciare a quanto ha di più caro. Quanto suggerito sembra infatti sottostare a una logica di do ut des: Mira paga l'accesso a conoscenze esoteriche in cambio di una sorte malevola. Quello che sembra essere un dono è, in realtà, una maledizione. Sembra proprio indicare questo, tra le righe, l'autrice: il consiglio di restare alla larga da realtà che non ci appartengono, per non correre il rischio di imbattersi in malefici di sorta. Sempre che sia possibile.
Daniele Scalese
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