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Il mito dell'ebreo errante negli occhi di un bambino: "Giardino, cenere" di Danilo Kiš

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Giardino, cenere
di Danilo Kiš
Adelphi, 2025

Traduzione di Lionello Costantini

pp. 189
€ 12,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)

Torna in libreria, con una nuova veste Adelphi, Giardino, cenere, il romanzo dello scrittore jugoslavo, oggi si direbbe serbo, Danilo Kiš, uscito per la prima volta nel 1965 e portato in Italia, proprio da Adelphi, nel 1986. Un inno poetico a un mondo sparito per sempre, quella Mitteleuropa ebraica transnazionale, che fondava la sua identità sul popolo dei seguaci di Noè, uno spazio plurilinguistico, multiculturale, talmente ricco di contaminazioni, a ogni livello, da diventare un luogo archetipico e leggendario nelle varie arti. La letteratura in primis, come dimostrano i grandissimi nomi che ne fecero parte, da Joseph Roth a Elias Canetti, da Franz Kafka a Stefan Zweig. Danilo Kiš è tra questi. Nato a Subotica, ora Serbia, nel 1935, visse i primi anni dell'infanzia in Ungheria, di dov'era originario il padre, ebreo, che verrà in seguito deportato ad Auschwitz, da dove non uscì vivo, mentre la madre era montenegrina. Già nelle prime note della sua biografia risulta evidente il mosaico mitteleuropeo che definì la vita e l'arte dello scrittore.

Giardino, cenere è la quintessenza di un'infanzia segnata da questi eventi ed è il primo romanzo di una trilogia dedicata alla figura del padre, qui chiamato Eduard Sam: Giardino, cenere del 1965, Dolori precoci del 1969 e Peščanik del 1972. Questo romanzo, che consacrò Kiš tra i grandi della letteratura, è un compendio di ricordi, sogni, pensieri, desideri, timori, che si riflettono nelle persone e soprattutto negli oggetti che popolarono la sua infanzia. Privo di una trama definita e lineare (cosa che può determinare una certa difficoltà di lettura), il romanzo narra dell'infanzia dell'io narrante, nel quale si identifica lo scrittore, in un luogo e in un tempo non definiti, Mitteleuropa anni Trenta del Novecento si può indovinare. I protagonisti sono Andreas, il bimbo, la sorellina Anna e la madre che rappresentano un nucleo a sé. E poi c'è il padre, Eduard Sam, appunto, ispettore ferroviario in pensione, anarchico, rivoluzionario nelle sue idee, filosofo, poeta, scrittore, panteista, pagliaccio, predicatore, nevrastenico. Ingombrante e assente al medesimo tempo, sempre colto sul punto di andarsene o di rientrare, fino alla partenza definitiva dalla quale non tornerà più. Personaggio strampalato, vittima sacrificale, un ruolo che si era ritagliato e che portava avanti a dispetto di tutto, Sam si dedicava incessantemente alla stesura di un libro, l'Orario delle comunicazioni, tranviarie, navali, ferroviarie e aeree che, con il tempo, si espanse fino a diventare una summa dell'intelligibile umano.

Era una Bibbia sacrale, apocrifa, nella quale si rinnovava il miracolo della Genesi, ma nella quale erano corrette tutte le ingiustizie divine e l'impotenza dell'uomo. In questo Pentateuco, le distanze tra i mondi, così crudelmente accentuate dalla volontà di Dio e dal peccato originale, erano ricondotte alla misura umana. Guidato dal furore cieco di un Prometeo e di un demiurgo, mio padre non ammetteva la distanza tra la terra e il cielo [...] Era una sintesi fantastica, direi quasi morbosa, di panteismo spinoziano, di rousseauianismo, di bakuninismo, di trockismo e di unanimismo moderno, un amalgama malsano di antropocentrismo e di antropomorfismo [...]. (p. 45)

Questo padre, perennemente in bombetta e redingote era la personificazione moderna, per quel tempo, dell'ebreo errante. Le pagine dedicate a lui richiamano alla memoria i più bei dipinti di Chagall (in special modo nella raffigurazione onirica del mondo ebraico, che il pittore traduce in un linguaggio visivo lirico e poetico, quasi a imitare un occhio infantile) intrecciati alle rappresentazioni dell'uomo di Magritte

Il titolo, Giardino, cenere, rappresenta le due polarità che tengono in tensione il romanzo, il giardino dell'infanzia e la cenere del passato, della morte. Andreas, un bimbo già messo a dura prova, dalla malattia del padre e dalla sensibilità esacerbata dagli eventi (i continui traslochi della famiglia), d'un tratto viene a conoscenza della possibilità, insita nella vita, della morte, attraverso le parole della madre: "È morto tuo zio" (p. 18). Pur non conoscendo questo parente, il piccolo rimane sconvolto dal concetto stesso di morte e sviluppa un parallelismo tutto suo tra sonno e morte, cercando, da quel momento, di voler rimanere sveglio fino all'arrivo dell'angelo del sonno, per sconfiggerlo, così come spera di fare nel momento del trapasso, con l'angelo della morte. Il lettore assiste impotente all'ansia del bambino che non vuole prendere sonno e, una volta ghermito da Morfeo, alle sue notti popolate da incubi. Al pensiero della morte subentra poi quello dell'Amore, nei panni di una coetanea, Julija, in un connubio sospeso, e al tempo stesso compiuto, tra Eros e Thanatos, quasi che l'uno possa sconfiggere l'altra. Un risveglio dei sensi che prelude a un forte senso di colpa che lo vede paragonarsi ai personaggi biblici.

Nella mia infanzia, ho condiviso il destino di tutti i personaggi dell'Antico Testamento, i peccati dei peccatori e la giustizia dei giusti, sono stato di volta in volta Caino e Abele, sono scampato nell'Arca di Noè e sono annegato nel mare con i peccatori. (p. 82)

Chi cerchi, però, di incasellare queste vicende in una trama ne uscirà sconfitto. La vera essenza del romanzo si sostanzia della descrizione di momenti, odori, sapori, ricordi e oggetti, la madre che gli porta la colazione in un vassoio, per descrivere il quale occorreranno 27 righe. O ancora, l'enorme macchina da cucire Singer, della madre, in ghisa nera, raccontata, nei minimi particolari, in 52 righe. O ancora il gusto, di matrice classica, per gli elenchi, quasi di memoria omerica: per descrivere gli argomenti trattati nell'opera scritta dal padre, Kiš utilizza oltre 200 aggettivi. 

La scrittura è densa e polimorfa, preziosa di significati e cesellata in ogni riga. Il fraseggio è spesso lungo e complesso. I tempi verbali passano, indifferentemente, dal passato remoto, a collocare quanto descritto in un certo momento storico, al presente, che rende, invece, il vissuto immortale e valido per tutte le generazioni a venire. Il tutto è sì raccontato con gli occhi di un bambino, ma con il linguaggio di un adulto che ha introiettato in sé un mondo di nozioni psicologiche, storiche, psicanalitiche, filosofiche. Quasi che l'autore riesca a raccontare le sensazioni di un bimbo, come se le stesse ancora provando, ma con un linguaggio da intellettuale. Una cifra stilistica assolutamente personale che riesce ancora a stupire (soprattutto in paragone a un trend attuale che vede tanti romanzi anche di bella scrittura, ma molto "holdenianamente" simili). A tutto ciò si deve aggiungere che gli eventi storici nel libro non vengono descritti, il lettore li percepisce da sfumature, mezze parole, non detti, sottintesi. D'altronde al bambino sfuggono questi avvenimenti, li conosce soltanto dall'effetto che hanno sulla propria famiglia.

Innegabilmente Giardino, cenere è un libro complesso, che accoglie il lettore facendolo addentrare all'interno di un fitto bosco di rimandi dal quale ne uscirà districando un ramo dopo l'altro. Termino qua, consapevole che ogni recensione rimane povera, perché difficilmente riesce a rendere l'ampiezza di una lettura di questo genere. Un'esperienza che, se pur lontana dai miei gusti personali, rappresenta una sfida e un'immersione totale in un mondo affascinante e così denso di frutti letterari e artistici da rappresentare un'epica.

Sabrina Miglio