Portnoy
di Philip Roth
2025, Adelphi
Traduzione di Matteo Codignola
pp. 283
€ 20 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
È una verità universalmente riconosciuta che le traduzioni, un po’ come capita alla maggior parte di noi, tendano a invecchiare male. La lingua scritta si impolvera, al contrario di quella parlata, che ferma non ci vuole stare; e con il passare dei tempi cambiano anche i valori culturali attraverso cui si leggono i libri, una cosa che non accade mai nel vuoto. Due argomenti cruciali per Portnoy’s Complaint, un libro che è strutturalmente e contenutisticamente un lungo monologo vivo, saltellante e inarrestabile, e che punta proprio a stuzzicare – anzi, bando agli eufemismi, a prendere a badilate in faccia – il sistema valoriale di chi legge.
Eppure, sia tra
addetti al lavoro che tra lettori laici, le ritraduzioni sono quasi sempre osteggiate,
in barba alle fatiche ingrate del povero ritraduttore di turno, sacrificatosi
sull’altare dell’impresa. È ovviamente il caso di Il signore degli anelli,
ritradotto di recente da Ottavio Fatica (nomen omen), tra le critiche
degli affezionati e le difese degli studiosi – con un bilancio dell’opinione
pubblica che, in definitiva, possiamo definire come positivo, passato lo shock
iniziale (e vi aspettiamo sul nostro canale YouTube per dire la vostra). È stato anche il caso de La terra devastata, ritradotto nel 2020
da Carmen Gallo, la quale ha anche dato un nuovo titolo dell’opera più famosa di T.
S. Eliot, scatenando l’indignazione generale. Un’indignazione che, perlomeno nel caso
della sottoscritta, sono bastati quindici minuti a dissolvere: quelli necessari a Gallo,
non solo traduttrice straordinaria ma anche anglista finissima, per spiegare le ragioni –
ragionevolissime, appunto – della sua scelta. Ma come ci insegnano i reality show
sulla chirurgia plastica gone bad, non tutte le operazioni di ringiovanimento
sono uguali, e il nuovo Portnoy di Matteo Codignola per Adelphi rischia
di apparire più un esercizio di stile che una vera restituzione dell’originale. Cosa che, dopotutto, potrebbe non essere mai stata il suo obiettivo.
L’operazione
editoriale è ambiziosa: dopo il trasferimento dei diritti da Einaudi ad
Adelphi, la casa editrice milanese ha deciso di inaugurare il proprio catalogo
rothiano proprio con Portnoy’s Complaint, affidando a Codignola, editor
di Adelphi e scrittore, oltre che traduttore, la missione di riportare in vita
la voce nevrotica, comica e iperarticolata di Alexander Portnoy. Il titolo si
accorcia – Portnoy, punto – ma il suo raggio d’azione si allarga:
restituire non solo la voce del protagonista, ma l’intera temperatura emotiva
di un romanzo che, con la stessa energia cinica, fa tanto ridere quanto
scandalizzare, tanto oggi quanto negli anni Sessanta, sebbene per motivi
diversi. La misoginia così esagerata da essere ridicola di Portnoy, la sua
visione del sionismo, il suo ritratto della società borghese statunitense: dicevamo
che le traduzioni hanno bisogno di un po’ di punturine, ogni tanto, ma non c’è
dubbio che il romanzo di Roth sia invece invecchiato bene, e sia in grado ancora oggi
di toccare nervi scoperti del mondo in cui viviamo – un mondo che, un po’ come
la vita di Portnoy, ogni tanto sembra una tragica parodia di se stesso.
E in effetti, la
resa di Codignola fa ridere. La nuova versione si legge con piacere, scorre, ed
è difficile da mettere giù: ha una brillantezza, un ritmo, che non si possono
negare. Ma si ride con un sopracciglio alzato: è una comicità posticcia, che
strizza l’occhio al lettore più che a Roth. La sensazione è che Codignola abbia
preso la voce di Portnoy e l'abbia non tradotta ma riscritta, facendone una parodia affettatamente
informale – siamo pur sempre nel campo da gioco dell’elegantissima Adelphi, in
fondo – infilandoci dentro un eclettismo linguistico che va dalla parlata
popolare al dialetto travestito da vezzo letterario. Termini come “scalmane”, “tanato”,
“sorci verdi”, ma anche il pastiche di regionalismi assortiti quali “mogliera”,
“mona”, “balengo”, sembrano più usciti dal lessico personale del traduttore che
da quello di Roth – il fatto che compaiano anche nel glossario e nella
postfazione, del resto, rafforza l’idea.
Come spesso è
stato fatto, in queste settimane di accaloratissimo dibattito, favorisco il raffronto dei tre incipit - l'originale, la traduzione einaudiana di Sonaglia, e quella adelphiana di Codignola:
She was so deeply imbedded in my consciousness that for the first year of school I seem to have believed that each of my teachers was my mother in disguise. As soon as the last bell had sounded, I would rush off for home, wondering as I ran if I could possibly make it to our apartment before she had succeeded in transforming herself. Invariably she was already in the kitchen by the time I arrived, and setting out my milk and cookies. Instead of causing me to give up my delusions, however, the feat merely intensified my respect for her powers. And then it was always a relief not to have caught her between incarnations anyway- even if I never stopped trying; I knew that my father and sister were innocent of my mother's real nature, and the burden of betrayal that I imagined would fall to me if I ever came upon her unawares was more than I wanted to bear at the age of five. I think I even feared that I might have to be done away with were I to catch sight of her flying in from school through the bedroom window, or making herself emerge, limb by limb, out of an invisible state and into her apron.
Philip Roth, Portnoy's Complaint
Ce l’avevo talmente conficcata in testa, mia madre, che per l’intero primo anno di scuola non riuscivo a non pensare che tutte le maestre fossero lei, travestita. Come suonava la campanella mi fiondavo a casa, e ogni volta, correndo, mi ripetevo sempre la stessa cosa: dài, se ti sbrighi ce la fai, la becchi che non si è ancora cambiata. Macché, appena mettevo piede in cucina mi si parava davanti, con latte e biscotti già pronti. Di fronte a un numero del genere avrei anche potuto togliermi dalla testa certe fesserie, ma figurarsi – accidenti che poteri, mi dicevo, e finiva lì. Comunque, benché non smettessi di provarci, non coglierla mai sul fatto era un gran sollievo. Dato che mio padre e mia sorella non ne sapevano nulla, della doppia vita di mamma, sbattergliela all’improvviso in faccia sarebbe stato un tradimento gigantesco – un peso che, a cinque anni, non ero certo di riuscire a reggere. Senza contare che, se mai l’avessi vista volare da scuola fino in camera da letto, o materializzarsi un pezzetto alla volta nel grembiule, cavolo, quell’oltraggio, secondo me, l’avrei pagato caro.
Philip Roth, Portnoy. A cura di Matteo Codignola (Adelphi)
Mi era così profondamente radicata nella coscienza, che penso di aver creduto per tutto il primo anno scolastico che ognuna delle mie insegnanti fosse mia madre travestita. Come suonava la campanella dell’ultima ora, mi precipitavo fuori di corsa chiedendomi se ce l’avrei fatta ad arrivare a casa prima che riuscisse a trasformarsi di nuovo. Al mio arrivo lei era già regolarmente in cucina, intenta a prepararmi latte e biscotti. Invece di spingermi a lasciar perdere le mie fantasie, il fenomeno non faceva che aumentare il mio rispetto per i suoi poteri. Ed era sempre un sollievo non averla sorpresa nell’atto dell’incarnazione, anche se non smettevo mai di provarci; sapevo che mio padre e mia sorella ignoravano la vera natura di mia madre, e il peso del tradimento, che immaginavo avrei dovuto affrontare se l’avessi colta sul fatto, era più di quanto intendessi sopportare all’età di cinque anni. Credo addirittura di aver temuto che, qualora l’avessi vista rientrare in volo da scuola attraverso la finestra della camera o materializzarsi nel grembiule, membro dopo membro, da uno stato d’invisibilità, avrei dovuto per questo morire.
Philip Roth, Lamento di Portnoy. A cura di Roberto C. Sonaglia (Einaudi)
Nella sua
postfazione, Matteo Codignola afferma di essersi dato due obiettivi principali:
svecchiare la lingua di Alexander Portnoy, e ridargli quella qualità orale da comicità
stand up che, peraltro, Roth stesso ha sempre negato di aver impresso alla sua
opera. Ma qui noi crediamo nella morte dell’autore (tristemente letterale, in
questo caso), dunque possiamo convenire che il dibattito non vada indirizzato tanto in direzione della legittimità
di questi obiettivi, quanto verso la loro esecuzione.
Il nuovo Portnoy
è senz’altro parlato, anzi, è iper-orale, carico ed esagerato, come è caratteristica della
narrazione della stand up comedy. Ma questo non lo rende automaticamente più
autentico. Il risultato risulta spesso affettato, poco spontaneo. Non
è tanto un restauro, un ringiovanimento, quanto una riscrittura con un forte
gusto per la battuta, il gioco di parole, l’effetto brillante a tutti i costi. Anche facendo la
tara dei cinquant’anni intercorsi dalla sua prima scrittura, e riconoscendo
quindi che la lingua inglese del Portnoy’s Complaint abbia senza dubbio qualche segno
del tempo, l’originale presenta comunque un’eleganza, una posa forbita, che si
nota bene nell’incipit qui riportato. Una postura che non indebolisce la
portata comica del romanzo, ma che anzi la esacerba: è lei a creare gli alti e
bassi che caratterizzano il monologo di Portnoy, lo scontro tra tensione
verbale e collasso nervoso che crea in chi legge la percezione del suo dissidio
interiore, del disallineamento tra forma e contenuto che, in fondo, è il cuore
della sua nevrosi.
Insomma, la postura che si vede nell’incipit qui sopra non è una patina di vecchiume, ma è parte strutturale del progetto narrativo. Senza contare che questa falsa eleganza da giovane yuppie formatosi in law school, tra un saggio di sociologia e l’altro, impiegato nell'amministrazione cittadina newyorkese e saltuariamente invitato a ricevimenti col sindaco in persona, non andava necessariamente sacrificata all’altare dell’ironia, ma era possibile metterla al suo servizio, ricreando così gli alti e bassi dell’originale. Rendere la voce di Portnoy del tutto irriverente, appiattirla su un registro basso, sebbene irreale, rischia di costare al romanzo in complessità. Una delle conseguenze più evidenti di questa scelta ricade sulla testolina bionda della povera Scimmia, una delle amanti del protagonista, che nel testo originale parla con un linguaggio colloquiale e rozzo, in netto contrasto con quello di Portnoy, il quale non lesina critiche nei suoi confronti e delle sue scelte verbali. Ma se nella nuova traduzione è proprio lui a occupare tutto lo spettro dell’oralità, Scimmia finisce per esprimersi in un registro ancora più innaturale, che non appartiene né a lei né a una verosimiglianza narrativa.
Anche sul piano
lessicale, alcune scelte sembrano più frutto di un entusiasmo creativo che di
una strategia traduttiva. Un esempio su tutti: “God damn it” di
Portnoy diventa “Dio canaglia”, il quale causerebbe in chi legge un effetto ben
diverso dall’originale anche senza voler considerare il tipo di libro che
abbiamo in mano. Ora, va bene che Portnoy è ateo, filocomunista, e generalmente
dissacrante, ma inserire una bestemmia gratuita lavora a favore della teatralità più che allo scopo di restituire la natura originale del testo, avvicinando il progetto a una forma
di reinterpretazione più che di traduzione.
E proprio in questo contesto si inserisce il tema della voce. La traduzione Einaudi aveva già una sua straordinaria qualità orale, pienamente dimostrata dall’audiolibro, un capolavoro a cura di Luca Marinelli. Trasporre quella voce nella forma che abbiamo fin qui descritto, caratterizzata da una colloquialità adelphiana, divertente ma posticcia, alquanto lontana non solo dalla stand up ma proprio dal registro parlato vero e vitale, ha come esito quella che sembra un'opera di teatro da leggere, più che da mettere in scena. Paradossalmente, questa nuova versione, pensata per suonare più “orale”, com’è la stand up, appunto, messa alla prova della lettura ad alta voce vacilla più della precedente.
Lasciando la
questione più annosa per ultima, eccoci al titolo. Come è stato più volte
argomentato in questi mesi, e come ha detto Roth stesso in un’intervista (ah,
scusate, allora l’autore in questo caso è risorto, con buona pace di Roland
Barthes), “lamento” forse non coglie tutte le sfumature di complaint. Ma, dopotutto, tradurre significa sempre lasciare indietro qualcosa; ogni scelta
comporta una rinuncia, lo sappiamo bene. Tagliare il sostantivo e lasciare solo
“Portnoy” è proprio questo: una rinuncia, il rifiuto della scelta. E, soprattutto, è
una decisione che presuppone una familiarità con l’autore e il testo che molti
lettori italiani, specie i più giovani, a cui forse questa edizione poteva
essere indirizzata, visto l’obiettivo di svecchiamento autodichiarato, non
hanno. Si può discutere sul piano teorico, ma sul piano pratico sembra
soprattutto una scelta editoriale studiata per attirare attenzione e rilanciare
un classico in veste nuova. E da quel punto di vista, ha senz’altro funzionato.
In definitiva,
questo nuovo Portnoy diverte, ha ritmo, e sicuramente conquista. Codignola ha creato una lingua avvincente, interessante, che rimane impressa e colpisce nel segno. Ma a
volte lo fa a discapito della complessità del testo originario. Una complessità
che si poteva gestire diversamente, magari indirizzandola verso un pubblico
giovane, proprio perché il Portnoy’s Complaint risulta estremamente attuale
oggi. Ma in ogni caso, come dicevo, ritradurre è spesso un lavoro ingrato, quindi
bisogna riconoscere il merito a Matteo Codignola di aver intrapreso un’impresa
impossibile. È perfettamente comprensibile, quindi, che l’abbia fatto
attingendo alle capacità che più lo caratterizzano, oltre alla traduzione: quelle di scrittore e di editor.
Marta Olivi
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