Non avere lavoro e stare lì seduta era un'immoralità di cui io dovevo necessariamente essere responsabile, perché sul serio non riuscivo a trovare qualcosa da fare, una cosa qualsiasi? (p. 56)
Oh, l'agognato posto fisso! Agognato sì, ma da chi? Non dalla protagonista, Sara Maria Villalba, capitata in un ufficio pubblico con un contratto a tempo determinato. Le sue prime buone intenzioni vengono continuamente frustrate, perché lei non sa quando incontrerà la sua responsabile né quando qualcuno le assegnerà qualcosa da fare. Tutti le dicono di aspettare, le sconsigliano di chiedere, e allora: «Drizzavo le orecchie per capire. Non capivo niente. Disquisivano del lavoro, ma in un modo così dettagliato da risultare indecifrabile» (p. 24). Passano le ore, passano i giorni e le settimane, e noi lettori sentiamo con Sara la vacuità di quel tempo che lei passa a prestare attenzione a dettagli irrisori, perché la noia peggiora continuamente. Infatti «i superiori non si dimostravano disposti a guidarmi; tutti presi dalle loro faccende, io li intralciavo» (p. 46).
E così, la prima metà del nuovo romanzo di Sara Mesa è occupata da un bruciante senso di inadeguatezza: Sara è trasparente («La mia scrivania in mezzo al corridoio non la notava mai nessuno», p. 55), per molti è solo quella nuova, che starà lì per un tempo limitato, e dunque non si prendono neanche la briga di farla sentire bene accolta. Chi le chiede come si chiami, spesso capisce Sava, non si rende conto che in realtà la ragazza ha il rotacismo, perché non le parla di altro, non le dà modo di farsi conoscere. E questo fraintendimento non è certamente un caso: è la denuncia in chiave satirica di un mondo del lavoro che non vede davvero l'altro, che non prova neanche a capire fino in fondo la sua identità, ma gliene attribuisce una fittizia. Per mancanza di tempo, per disinteresse, per noncuranza.
Se gli adulti non sembrano proprio capire la vergogna di Sara nel percepire uno stipendio (più che onorevole) lavorando pochissimo, anzi, senza fare niente, per lei questa mancanza di compiti diventa un'ossessione, un rovello continuo. Anche per questo, quando le propongono di iniziare a studiare per partecipare al concorso che potrebbe trasformare il suo contratto temporaneo in un bel posto a tempo indeterminato, lei inizia a pensarci. Non perché le interessi la materia da studiare, ma perché avrebbe così almeno qualcosa da fare. Certo, se un giorno vincesse il concorso, queste ore lavorative vuote diventerebbero la norma. Dunque, che fare?
Quando iniziamo a temere che il romanzo sia pericolosamente statico – va bene la denuncia sociale, ma serve pur anche un po' di azione –, la fissità narrativa (che a tratti pare addirittura farsi descrizione di giornate sempre uguali) si smuove. E allora affiorano incontri con colleghi che potrebbero diventare amici: ci sono le prime colazioni in compagnia, e presto le chiacchiere superficiali virano verso un po' di pettegolezzi da ufficio, critiche più o meno velate su altri colleghi e superiori. Ma quella è amicizia? Diversissime di carattere, Beni e Sabina sono le due colleghe a cui Sara si avvicina di più: può fidarsi di loro? Di sicuro Sabina porta con sé uno sguardo iper-critico, apre gli occhi a Sara sul
«tempo, quello che si vende e quello che si paga, ma anche quello che ci ruba il sistema, quello che ci viene portato via pur non essendo poi utilizzato in nessun modo. Era indifferente quanto competenti, rapide o professionali fossimo; era indifferente la nostra capacità di autogestione; ci fosse o meno lavoro, ci obbligavano a scaldare la sedia e lì dovevamo restare, buone buone e sottomesse fino all'ora stabilita, senza dimenticare chi è il padrone del nostro tempo, cioè, chi è a capo della baracca» (p. 134).
Sabina è molto diversa da Sara, certo, ma non per questo è meno convincente; anzi, la sua esperienza e il suo carisma portano anche Sara a boicottare il sistema, ma suo malgrado. Non si può dire molto in questa sede senza cadere in spoiler colpevoli; vi basti – e pare necessario per comprendere che il motore dell'azione arriva, tardi ma arriva – che Sara non agisce per convinzioni ideologiche, ma per uscire dalla noia, sua vera ossessione. Ecco che allora la narrazione è cosparsa di ironia acuminata, e la critica al mondo del lavoro arriva davvero, non dalla Sara protagonista, ma dalla Sara autrice.
Sono le azioni del romanzo, la piega inattesa e quasi kafkiana, i formalismi di un mondo lavorativo statico e che non si mette mai in gioco, a diventare un caposaldo di Il concorso. La confusione di Sara è la confusione di una generazione intera, che si trova a passare dal mito del posto fisso, meglio ancora se nel pubblico, alla crisi delle certezze: ha senso davvero fare ogni giorno per decine di anni un lavoro così limitato e limitante?
Giocato sulla dilatazione abnorme del tempo nella prima metà e sulla sua progressiva contrazione nella seconda, Il concorso è un romanzo profondo, che in poco più di duecento pagine fotografa con quieta disperazione il lavoro nel settore pubblico, smitizzando l'illusione secondo cui meno si lavora, meglio si sta. Il disagio di Sara, il grigiore dell'ambiente, la cavillosità della burocrazia, la mancanza di senso di tanti procedimenti che restano tali solo perché sono sempre stati così esasperano la mente di una giovane lavoratrice che desidera mettersi in gioco. E che sarà costretta – più dal desiderio di autoconservazione che dal mondo esterno – a prendere decisioni forse impopolari, ma finalmente autonome.
GMGhioni
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