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Nel cuore del mito: “Il battello bianco” di Čyngyz Ajtmatov tra sogno e disincanto

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Il battello bianco
di Čyngyz Ajtmatov 
Marcos y Marcos, settembre 2025

Traduzione di Gigliola Venturi

pp. 200
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Talvolta basta uno sguardo di bambino per scoprire che il mondo non è come ci era stato raccontato. C’è una soglia invisibile, fragile come un respiro, oltre la quale la meraviglia si tramuta in dolore, e il sogno si infrange contro la materia dura della vita. È in quello spazio che si muove la scrittura di Čyngyz Ajtmatov: una lingua che cerca la verità senza abbandonare la poesia, e che sa dare voce al silenzio di chi non ha potere.

Ajtmatov, figlio delle steppe kirghise e testimone inquieto del secolo sovietico, non è stato soltanto un narratore. È stato un uomo di coscienza, un intellettuale capace di unire la fedeltà alla propria terra con una visione etica universale. Nei suoi romanzi, l’attivismo non si manifesta come propaganda, ma come compassione, come tenace ricerca di giustizia. Difese la natura, la cultura nomade, la dignità dei popoli marginali; denunciò la corruzione morale e politica di un sistema che sacrificava la vita reale in nome dell’ideologia. Nel romanzo Il battello bianco, pubblicato nel 1970 e oggi riproposto da Marcos y Marcos, Ajtmatov affida questa sua visione a una parabola struggente. La storia è semplice: un bambino vive con il nonno in una valle montana, isolato dal resto del mondo. Ma dentro di lui, alimentato dai racconti e dalle leggende tramandate dall’anziano, nasce un universo luminoso e mitico. Il piccolo crede nel battello bianco che solca un lago lontano: immagine di salvezza, di libertà, forse di ritorno a una purezza perduta.

Il bambino trascorre le sue giornate tra la scuola del villaggio e la riserva naturale dove il nonno lavora come guardiano. La madre lo ha abbandonato, il padre è scomparso, e il vecchio rappresenta per lui l’unico punto fermo in un mondo che già mostra le crepe dell’ingiustizia. Le storie che il nonno gli racconta, su antichi spiriti, su eroi e animali sacri, diventano per il piccolo un linguaggio segreto, un modo per dare senso a ciò che accade intorno. Tra tutte, la leggenda della Madre Cerva dalle ramose corna lo affascina più di ogni altra: l’animale che un tempo aveva salvato un bambino perduto nella neve, diventando simbolo di bontà e di custodia della vita.

Ma gli adulti che circondano il protagonista non conoscono la purezza del mito. Il padrino, Orozkul, uomo rozzo e opportunista, approfitta della posizione del suocero per ottenere vantaggi; altri cacciatori uccidono la fauna della riserva per vanità o guadagno, calpestando ciò che il vecchio cerca di proteggere. In questa realtà violenta e meschina, la fantasia del bambino si fa sempre più fragile: l’amore del nonno non basta più a difenderlo dal male che avanza. 

Gli uomini della valle vivono di espedienti, di fatica e compromessi. Tagliano alberi, commerciano illegalmente la selvaggina, si arrangiano per sopravvivere in un sistema che ha cancellato ogni legame con la natura e con il sacro. La Madre Cerva, per loro, non è più la creatura luminosa che un tempo vegliava sugli uomini, ma solo una preda: un trofeo, un corpo da smembrare. Nel loro gesto di violenza contro di lei si condensa tutto l’oblio di un popolo che ha dimenticato le proprie radici spirituali, la propria relazione con la terra. Il bambino, invece, guarda a quella figura con un amore assoluto: nella Madre Cerva vede la continuità della vita, la bontà che unisce tutti gli esseri, l’eco di un mondo in cui nessuno è solo. E dentro di sé coltiva un desiderio che è sogno e vocazione insieme: diventare pesce, nuotare fino al battello bianco  che immagina ogni giorno all’orizzonte, raggiungere il lago, forse il mare, e lì ritrovare suo padre, o meglio, ritrovare se stesso in una dimensione di armonia e libertà. Quel battello, che egli crede di scorgere da lontano, è il simbolo della sua sete di appartenenza e di verità.

Tu hai respinto quello che il tuo animo di bambino non poteva accettare. È questa la mia consolazione. Hai vissuto come un lampo. Ma i lampi nascono da cielo. E il cielo è eterno. E anche mi consola che per l'umanità la coscienza dei bambini è come il germe di grano, senza germe il grano non spunta. E qualunque sorte ci attende in questo mondo, la verità durerà in eterno, finché al mondo ci saranno uomini che nascono e muoiono. (p. 199)

Quando gli uomini uccidono la Madre Cerva, la frattura si consuma definitivamente. Il mondo del mito e quello della realtà non possono più convivere: la bellezza è profanata, la parola è tradita. Il bambino comprende che nessuno tornerà a salvarlo, che la bontà non ha luogo tra gli adulti. Così decide di raggiungere il suo sogno: nuotare verso il battello bianco, come se nel fondo delle acque ci fosse ancora una possibilità di ritorno, di rinascita, di libertà.

La fantasia del bambino non è fuga, ma resistenza. In un mondo segnato dall’abbandono, dalla violenza e dall’opportunismo, l’immaginazione diventa la sua sola patria. Tuttavia, Ajtmatov non concede illusioni: l’universo del bambino è destinato a scontrarsi con quello degli adulti, dominato dal calcolo e dalla sopraffazione. La tragedia che si consuma non riguarda soltanto il destino di un singolo, ma l’intero rapporto tra l’uomo e la sua innocenza originaria. Quando la Madre Cerva viene profanata e uccisa, non è soltanto un animale a morire, ma il legame stesso tra l’uomo e la natura, tra la parola e la verità. Ajtmatov costruisce qui un dramma universale: la sconfitta della purezza, il trionfo della meschinità, e insieme la certezza che senza il sogno, senza la capacità di credere nel battello bianco, non resta che il vuoto. 

La scrittura dell’autore kirghiso procede con calma e precisione, senza mai alzare la voce. Ogni gesto, ogni immagine è intrisa di pietà e di dolore. Il paesaggio delle montagne, le acque immobili del lago, gli animali silenziosi: tutto diventa specchio del mondo interiore del bambino, e metafora di un’umanità che ha dimenticato come guardare con occhi puri. Il bambino di Ajtmatov non è solo un individuo: è il riflesso dell’anima kirghisa, di un popolo sospeso tra il nomadismo delle origini e la modernità imposta, tra la fedeltà alla natura e la violenza della civiltà che la nega. In lui si raccoglie la nostalgia di un’intera nazione per il tempo in cui la terra parlava ancora agli uomini, e gli uomini sapevano ascoltarla. La sua scomparsa è anche la loro: un presagio di silenzio, di perdita, ma anche di attesa, perché ogni sogno affondato lascia dietro di sé un cerchio d’acqua che continua a vibrare.

Nel bambino de Il battello bianco si riconosce il puer aeternus di ogni cultura: quella parte dell’uomo che continua a credere nella purezza del mondo anche quando tutto attorno sembra smentirla. Ajtmatov lo pone al centro come figura terapeutica, non nel senso ingenuo della consolazione, ma in quello più profondo della cura: è attraverso la sua fragilità che la società viene chiamata a interrogare la propria coscienza. Il suo sguardo non salva, ma rivela. In lui si riflette il destino del popolo kirghiso, costretto a passare dall’oralità mitica alla razionalità imposta del socialismo sovietico, dall’armonia con la natura al dominio sulla natura. Il bambino rappresenta ciò che di quel passaggio resta vivo e non assimilabile: la memoria affettiva, la pietà, la fiducia che l’esistenza possa ancora avere un senso non strumentale.

Ajtmatov, con la sua opera e il suo impegno civile, non difende soltanto un patrimonio culturale, ma un principio etico: la responsabilità di custodire l’umano contro ogni forma di disincanto programmato. Il puer del romanzo diventa così la sua voce più radicale, la parte innocente ma lucida che rifiuta l’adattamento e chiede di tornare a sentire, a ricordare, a rispettare.

Com'è semplice provare felicità e dividerla con gli altri. Bisognerebbe vivere sempre così. Ma la vita non va in questo modo - accanto alla felicità sta appostata, pronta a far irruzione nel tuo animo e nella tua vita, l'infelicità che ti segue senza allontanarsi di un passo, inseparabile, eterna. (p. 117)

Nel mondo adulto e sradicato che Ajtmatov descrive, l’infanzia non è un’età perduta, ma una postura morale. È il luogo da cui guardare di nuovo la realtà senza cinismo, sapendo che la guarigione di un popolo, come quella di un individuo, comincia sempre da lì: dal recupero della sua capacità di stupirsi, di soffrire, e - perché no - di riconoscere, nel dolore del piccolo, la misura della propria verità.

Serena Palmese