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Una figlia conforme e un padre ingombrante. Tra libertà dell’identità e peso dell’eredità familiare nell’esordio di Francesca Cavallone “La figlia conforme”

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La figlia conforme
di Francesca Cavallone
Giulio Perrone editore, 19 settembre 2025

pp. 253

€ 20,00 (cartaceo)


All’ingresso di ***ebbi la sensazione di non avere scampo. Avevo sbagliato a precipitarmi, non era nella mia natura. Lontano da quei portoni, da quelle antenne, da quelle panchine e, soprattutto, lontano dalla casa dei miei genitori, io mi sentivo più coraggiosa. (p. 13)

La figlia conforme è il bellissimo esordio di Francesca Cavallone, scrittrice di origini baresi e residente a Roma da diversi anni, dove scrive per blog letterari e si occupa di sceneggiatura e teatro. Il suo romanzo è incentrato sulla storia di una famiglia pugliese, un microcosmo di affetti e rancori che potrebbe appartenere anche a molte altre latitudini. 

La storia si apre con Sveva Melillo, avvocata penalista non certo nel pieno del successo professionale, che riceve la telefonata della madre: il padre sembra aver perso la memoria. Sveva, scossa, si mette in viaggio verso casa e, già durante il tragitto, il lettore entra nel suo flusso di pensieri, nei ricordi e nei rancori, in quella rete di emozioni contrastanti che lega e imprigiona i membri di ogni famiglia. È qui che la figura del padre, Carlo Melillo, si impone da subito come presenza granitica e contraddittoria – un uomo “incrollabile” che, tuttavia, proprio nel momento della sua fragilità, rivela la precarietà del suo potere.

Carlo Melillo, latifondista, imprenditore, ex sindaco e noto politico locale, aveva un solo modo di esprimersi: l’aggressività. Dava il meglio di sé in occasione dei comizi elettorali, li preparava con cura, in perfetto stile dittatoriale. Un dosaggio perfetto di populismo e invettive. In genere partiva pacato e lentamente saliva di tono, sempre di più, fino a scatenarsi in offese da querela agli avversari e battute da caserma ai suoi fedelissimi. […] Mio padre riempiva le piazze; di solito erano gremite di uomini in là con gli anni, contadini con le facce bruciate dal sole, le rughe intagliate e le mani deformate dai calli. Indossavano camicie bianche o azzurre, perfettamente stirate: il comizio era un’occasione importante e non l’avrebbero mai perduta. (pp. 66-67)

Come padre e marito Carlo è un uomo autoritario, che  detta legge in casa, che decide il destino delle figlie, esercitando un carisma che si confonde con il potere e con l’illusione di saper risolvere ogni problema, propri e altrui. Accanto a lui, Teresa, una moglie remissiva, quasi priva di fisionomia autonoma: ogni gesto è modellato sul volere del marito, ogni parola sembra esistere solo in funzione di quell’uomo ingombrante e assoluto. «Mia madre non conosceva altro modo di stare al mondo che essere, prima di ogni altra cosa, la moglie di nostro padre» (p. 23). Due mondi e due caratteri diversi: lui che ingrandisce i problemi, li rende plateali e lei che invece li minimizza fino alla banalizzazione. Due genitori, due estremi assoluti: quale traccia e quale trauma hanno lasciato alle loro figlie?

Al suo arrivo, Sveva trova un padre smarrito, quasi svuotato di sé, incapace di riconoscere volti e relazioni. Viene presto coinvolta anche la sorella Giulia, sposata con Corrado, un uomo mediocre e poco stimato dal suocero. Ma ciò che più inquieta la famiglia è la rimozione totale dell’altra figlia, Valeria, la “non conforme”, colei che ha sempre sfidato le regole paterne e ha scelto di vivere in un ashram nel Salento. 

Nessuno pronunciava il suo nome, eppure la sua assenza infestava casa nostra più di quanto avrebbe potuto fare la sua presenza. Ripudiarla era diventata una ragione di coesione per una famiglia, la nostra, che ne possedeva molto poche. (p. 44)

Spinta da un desiderio ambiguo – insieme di riconciliazione e di resa dei conti – Sveva decide di accompagnare il padre proprio in quell’ashram, nel tentativo di risvegliare in lui il ricordo della figlia dimenticata. È qui che la narrazione prende una piega inaspettata: le pagine ambientate nel Salento scorrono ipnotiche, cariche di tensione e rivelazioni. Il colpo di scena finale, che non svelo, possiede una doppia funzione: non solo rilancia la vicenda con energia, ma ricompone con maestria i frammenti disseminati lungo il racconto, illuminando ciò che finora era rimasto nascosto o taciuto.

La figlia conforme è un romanzo intelligente, di scrittura limpida e priva di retorica. Cavallone affronta con ironia sottile e talvolta con un gusto quasi grottesco temi tutt’altro che leggeri: l’autorità genitoriale, il peso delle aspettative, il conflitto fra libertà individuale e dovere familiare. Carlo Melillo incarna un patriarcato domestico che pretende di scegliere la strada «dignitosa» per ciascuna figlia: Sveva, la penalista non all’altezza delle ambizioni paterne; Giulia, «una contabile dell’esistenza» (p. 49), legata a un uomo considerato inetto; e Valeria, la figlia ribelle da cancellare. Non è un caso che sia Sveva, e non la sorella Giulia, a intraprendere il viaggio verso la “figlia dimenticata”. È lei, infatti, ad aver attraversato un percorso di analisi, ad aver tentato di decifrare la complessità del legame con Valeria e, più in generale, il peso dell’eredità familiare. Giulia, dal mio punto di vista, resta ancorata al ruolo convenzionale della donna “conforme”, attenta alle apparenze e ai piccoli rituali della quotidianità; Sveva invece sceglie di confrontarsi con il rimosso, con quella parte di sé che Valeria rappresenta in forma estrema. In questo gesto, apparentemente dettato dalla pietà filiale, si nasconde la tensione autentica del romanzo: la ricerca di una verità affettiva e identitaria che possa sciogliere le catene dell’obbedienza.


Le tre figlie Melillo rappresentano, ciascuna a modo suo, un diverso grado di conformità all’eredità paterna, tuttavia proprio Valeria, la “non conforme”, quella che sembra essere l’unica ad aver spezzato il legame, finisce per misurarsi con la stessa origine. Cavallone suggerisce con finezza che nessuno sfugge davvero all’imprinting familiare: anche chi si allontana, anche chi fugge, porta dentro di sé quella traccia primigenia che modella i comportamenti, i desideri e…persino le colpe. È proprio il riconoscimento di questa eredità, più che la sua negazione, a costituire il passo necessario verso una forma possibile di libertà.

Non è tanto nella forma del mento, del naso o nel taglio degli occhi che riconosciamo chi ci ha messi al mondo ma nel corredo di piccoli gesti, di espressioni involontarie che sono sempre appartenuti a loro e, a un certo punto della vita, diventano nostri. […] è quello il momento in cui iniziamo a invecchiare. (pp. 220-221)

La prosa di Cavallone si distingue per un equilibrio raro tra leggerezza e densità. È una scrittura che non indulge mai nel patetico, anche quando tocca nodi emotivi profondi: ogni frase sembra misurata, trattenuta, e proprio per questo risulta più incisiva. L’autrice lavora per sottrazione: non spiega, lascia che il non detto agisca nei silenzi, nei gesti quotidiani, negli sguardi che tagliano più delle parole. C’è un’ironia sottile che attraversa tutto il romanzo – Cavallone riesce a far sorridere, talvolta, anche nei momenti più cupi.


In La figlia conforme, il familiare diventa specchio del collettivo: nelle stanze chiuse dei Melillo si riflette la difficoltà, tutta contemporanea, di liberarsi dai modelli imposti, di scegliere chi si vuole essere davvero.


Marianna Inserra