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Si intitola Una storia russa, ma è scritto in lingua ucraina e parla dell'Ucraina, e questa prima contraddizione mi sembra un'ottima via di accesso al romanzo di Jevhenija Kononenko, che gioca con la letteratura e attraverso di essa ci parla dell'identità di due popoli.
Che il problema d'identità passi anche per un problema linguistico lo si comprende dalla scena iniziale del romanzo, che vede cinque persone fare un picnic nel Midwest. Tre parlano russo e inglese, due russo, ucraino e inglese, due francese. Insomma, una cosiddetta famiglia allargata, quella che vede coinvolti Jevhen e Lada (i due ucraini, genitori di Myroslav, ora separati) e i loro due nuovi compagni: Dunja (americana, ma insegnante di russo) e Thierry (francese, che si rifiuta di parlare inglese).
L'inizio è scoppiettante e ci dona subito il tono - o meglio uno dei toni - di questo romanzo, che riesce a sorprendere per la maniera assolutamente anti-retorica di affrontare la storia ucraina.
Di questa stravagante famiglia nessuno può o vuole più vivere a Kyiv (chiamata non a caso con la dizione ucraina, e non Kiev) in via Puškin, a casa del nonno.
Qui si comincia a comprendere come le identità siano necessariamente mischiate: perché la patria lontana, evocata nei lunghi flashback, è legata non solo a via Puškin (padre della letteratura russa) ma tutta la storia di Jevhen gioca a fare il verso a quella di Evgenij Onegin. Del resto, il nome Jehven in ucraino corrisponde a Evgenij. Proprio come il personaggio puskiniano, Jevhen in crisi lavorativa e sentimentale, in una tempesta filosofica e con la confusa vocazione di studiare Nietszsche, la lingua tedesca e approfondire la letteratura russa, decide di trasferirsi in campagna, nella vecchia tenuta di uno zio. La casa è indubbiamente un personaggio del romanzo.
I cassetti della scrivania del generale, invece, erano tu pieni di suoi quaderni di appunti. Lo zio aveva cercato venire a capo della sua esistenza, annotando con cura gli eventi che avevano avuto un senso innanzitutto per lui stesso. E forse il vero motivo per cui aveva deciso di intestare la sua casa a quel nipote che aveva studiato, motivo di cui non si rendeva conto nemmeno lui, era proprio quello di fargli leggere i suoi taccuini, in modo che diventassero qualcosa di significativo almeno per un'altra persona. Perché quelle carte a cui aveva lavorato per anni non andassero a finire nella stufa, visto che a Irivka d'inverno ci si scalda con la legna, e la carta è naturlmente destinata al fuoco, così come la primavera lo è a prendere il posto della stagione fredda. Jevhen decise che un giorno si sarebbe immerso in quell'archivio. Magari avrebbe potuto trovarci qualcosa d'interessante. Ma era prematuro, il momento non era ancora giunto. (p. 60)In questo luogo sperduto e autentico dell'Ucraina, Jehven rivive delle avventure che sono peripezie trasfigurate dell'Onegin. Avrà la sua Olja e la sia Tanja, perfino una sorta di duello.
Nonostante l'accoglienza calorosa degli abitanti del villaggio e i doni che gli vengono tributati, Jehven è infelice e decide di espatriare negli Stati Uniti.
Ma come si fa a far tornare il paradiso in questo villaggio se l'Ucraina è tutta un casino? Non pagano gli stipendi e le pensioni, i prezzi aumentano, l'inflazione è alle stelle e l'economia aa rotoli, la televisione è invasa dalla cultura di massa russa e americana, gli ucraini consapevoli di esserlo se ne vanno che all'e stero e il popolino di provincia ubriaco canta le canzoni russe. Chissà che confusione hanno in testa, la cosa peggiore è quando non ci si riesce a liberare dalle parole straniere! Un caos così non potrà mai generare la stella danzante. Meglio rimettere su Mahler e spegnere il cervello. (p. 109)
Il romanzo è un brillante gioco di rimandi ed echi. Nella sua brevità riesce a dire tante cose - anche considerazioni estetiche sul post-moderno - ma lo fa con leggerezza, senza pose, senza perdere mai la bussola della narrazione. L'intreccio è ben gestito e ci si sposta nella linea del tempo degli avvenimenti di Jehven con facilità, acquisendo sempre di più tasselli che consentono di dare spessore, e anche simpatia, al personaggio.
Il finale, che per ovvi motivi non si può citare, è di una bellezza lirica e malinconica, che lascia la tristezza in bocca di quando si è concluso un libro bello.
Deborah Donato
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