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“Dormi il tuo sonno animale”: quando la potenza, purtroppo, non si trasforma in atto

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Dormi il tuo sonno animale
di Carole Martinez
edizioni e/o, settembre 2025
 
Traduzione di Alberto Bracci Testasecca
 
pp. 368
€ 20,00 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)

Stanotte tutti i bambini del villaggio hanno urlato alla stessa ora e il grido continua, sta attraversando il mondo. I bambini urlano nel sonno da un capo all'altro del pianeta mentre la notte avanza. (p. 51)

E se un giorno, all’improvviso, alla stregua di un super-organismo, proprio come le formiche o le api, tutti i bambini del mondo iniziassero a fare dei sogni collettivi grazie ai quali – o a causa dei quali – influenzare le sorti del pianeta? È quello che si chiede e a cui tenta di dare risposta – non senza qualche intoppo – Carole Martinez nel suo nuovo romanzo, vero e proprio esperimento narrativo, Dormi il tuo sonno animale.

Parigi: Eva, neurologa con la passione per lo studio del sonno, sta per avere una bambina da suo marito Pierre. Fin dalle prime battute i due non sembrano una coppia idilliaca, in cui l'arrivo di un figlio è atteso con gioia e trepidazione ma, al contrario, la gravidanza è vissuta come un'imposizione subita dalla futura madre, vittima di insonnia, soggiogata da un marito prepotente e apparentemente estraneo al dramma privato in atto, il quale, a differenza della moglie, «ha un sonno animale» (p. 15). Anche gli epiteti riservati dalla donna alla bambina che porta nel grembo – «la cosa»  (p. 13), «l’essere»  (p. 13) e «l’invasore»  (p. 14) –, sono il chiaro sintomo di una condizione vissuta come l’appropriazione di uno spazio intimo: non è certo un caso se già nelle prime pagine la donna si definisce un «territorio occupato» (p. 13).

Sipario. Dopo un salto temporale di otto anni, ritroviamo Eva e sua figlia Lucie, ormai legate da un rapporto simbiotico in cui:

attraverso gli occhi di mia figlia riscoprivo le cose della vita. Il mondo era più ampio visto dall'altezza di un bambino, ogni minimo insetto diventava smisurato e, osservandoli abbastanza a lungo, anche i sassi mormoravano una via poetica, un sentiero di Pollicino che seguivamo insieme senza preoccuparci di sapere dove portasse, incuranti del passare del tempo. Mi rimpinzavo di quei momenti che mi regalava mia figlia, vibravo due volte, da quando era nata mi ero moltiplicata (p. 24)

Le due sono fuggite da Parigi per stare lontane da Pierre, padre e marito violento, e trasferitesi tra le paludi della Camargue, in questo luogo sospeso e incantato, completamente isolate dal mondo e in cui l’unica violenza, oramai, è quella inarrestabile con cui si propaga e prospera la natura. Il solo contatto umano è con Serge, loro vicino di casa, uomo gigante tanto nell’aspetto quanto nella bontà d’animo ma che cela, trapela fin da subito, un passato doloroso. Dall’incontro con l’uomo, purtroppo, il romanzo inizia a scricchiolare, vittima di qualche cliché di troppo, tanto nella trama quanto nella forma (come le sensazioni pruriginose, tanto in Eva quanto in Serge, successive al primo incontro).

Viaggiando insieme alla rotazione terrestre sono i sogni – anzi, gli incubi – a sconvolgere le notti di Lucie e di tutti i bambini della Terra. L’umanità guarda con meraviglia e sgomento le piaghe scaturite da queste notti agitate, benché «l’idea di un sogno collettivo sfida ogni comprensione. Freud ha dichiarato che il sogno è un territorio strettamente privato, creatura di uno spazio psichico chiuso» (p. 65). Che sia la Terra stessa, madre accogliente e severa, a cercare di mandare un messaggio all’umanità che la abita utilizzando i suoi più piccoli inquilini: i bambini? Bambini che sembrano tramutarsi, nel sonno, in piccole bestiole,  portavoce di messaggi dal sapore universale.

In questo romanzo corale, come corale è la portata del fenomeno descritto, apprezzabile è la scelta del tempo presente, che dona dinamicità al ritmo del racconto ma anche un senso di smarrimento, di mancanza di quell’io onnisciente che non sa, proprio come il lettore, la piega che prenderanno gli eventi. In quest’opera dalle grandi potenzialità, che possiederebbe la statura della parabola biblica, sulla falsa riga di Cecità di Josè Saramago, manca, forse, un po’ di convinzione. L’autrice, persa nei virtuosismi di forma cade, come anticipato, in cliché superflui ai fini della trama affastellando, forse, troppi temi che lasciano il lettore disorientato. Dopotutto regola aurea nella narrativa è inserire elementi necessari allo sviluppo dell’intreccio.

Resta fondamentalmente interessante la contrapposizione, serpeggiante in tutto il romanzo, tra onirico e ferino, dove il luogo in cui essere più ancorati alla terra e alle sue problematiche – tema, oggi, attuale più che mai – resta il sogno. Questa duplicità la porta con sé anche l’ambientazione scelta, la regione della Camargue, dove gli abitanti sembrano emanazioni della palude – dal primo incontro con Serge Eva ha la sensazione di non aver «incontrato un uomo, ma una specie di emanazione della palude del delta» (p. 30) – e la realtà sembra più irreale del sogno. Un esperimento narrativo interessante, dunque, che non convince del tutto.

Corinna Angelucci