di Pierfrancesco Trocchi
Metilene, maggio 2025
Tancredi era ricco, la famiglia di Tancredi era di nobile schiatta latifondista da almeno duecento anni, Tancredi amava l'arte e il bello, Tancredi si alzava tardi la mattina anche quando non era festa, Tancredi a sedici anni aveva già la macchina per i diciotto, Tancredi era malato e non si sapeva quanto ancora sarebbe stato al mondo. [...] Gli altri non sapevano che Tancredi stava per morire, io sì. (p. 11)
In qualche modo, tutti si attendavano qualcosa, quella sera, perché le circostanze dell'invito erano state volutamente vaghe. Chiamate ufficialmente alla sacra dimora di Tancredi erano quattro persone: io, Nico, Agnese, Fiamma e, più distrattamente, Gaetano. (p. 83)
All'inizio ne siamo certi: Tancredi è in fin di vita. Ne appuriamo i dettagli amarissimi della malattia che lo sta stroncando. Eppure alcuni segnali costringono a mettere in dubbio le parole del ragazzo e diventa lecito chiedersi: Tancredi sta davvero morendo?
Potrebbe infatti trattarsi dell'ennesimo colpo di teatro di chi, da sempre, ama dissimulare.
Emergono i lati contraddittori di un ragazzo irresistibile e ingannevole, il Tancredi naïve e la sua controparte cinica, l'amante dell'arte, il burattinaio.
E quindi a che serve quella cena e a chi? Rivelerà qualcosa di decisivo su Tancredi o determinerà il destino di tutti i presenti?
Forse, Tank vuole dire addio a chi ama o, al contrario, vincolarlo a lui per sempre.
Sono tante le domande di una storia che impiega un po' per mettersi a fuoco, ingrana dopo premesse che causano qualche rallentamento nella prima parte e accelera tra ipotesi, suggestioni, litigi. A tratti, la narrazione si fa ingarbugliata come gli intrecci amorosi dei personaggi. Nella villa si amalgamano ricordi offuscati e ricostruzioni inattendibili, amori mancati e altri castrati, finzioni, svelamenti. I toni si esasperano, la commedia diventa dramma, svia nella farsa, poi tutto si fa solenne, serissimo.
Al livello più alto, il romanzo compie un ragionamento sulla morte e sull'illusione di poterla sfatare, ridicolizzandola. Facendone bugia.
Io non ho mai creduto fino in fondo alla morte, ho sempre vissuto nell'ironia. Tutto può essere ribaltato nell'ironia. Si può negare tutto, anche la morte, per l'appunto. (p. 99)
Ti detesto per quanto sottovaluti la morte. Come fai a non averne paura? (p. 124)
Filò sa essere un libro profondo e cerebrale sul concetto di verità, verità necessaria in amore e nelle amicizie più dolorose.
"Delle volte mi chiedo perché siamo amici."
"Perché abbiamo il coraggio di non rispettarci." (p. 70)
La pista che porta alla verità si rintraccia nel legame tra Tancredi e Agnese, tornata dall'Australia per lui o forse per il suo amico principale.
Agnese sapeva che il mondo era identico ovunque, in saecula saeculorum, eppure era convinta che l'ambiente facesse l'uomo, lei, giraffa di Lamarck, era certa di mangiarsi tutte le foglie che voleva, fino alla luna. E invece eccola lì, tornata non si sa per quanto, Agnese, tornata per Nico o forse per Tancredi, tornata per sé o per paura. (p. 24)
Si apprezza come Trocchi, all'esordio, non si limiti a un gioco di decostruzioni, ma componga anche un testo sulla bellezza, da intendere in senso assoluto e liberatorio, che va cercata ovunque, tra le pieghe del quotidiano, negli altri, nella musica e nella letteratura.
L'autore si affida a un impianto polanskiano che pone i pochi personaggi in un unico ambiente - l'espediente era stato sfruttato dal regista polacco in Carnage (2011) e Venere in Pelliccia (2013) soprattutto. La formula teatrale si sposa bene con un copione di personaggi che fanno della recita una peculiarità, e dà modo di sviluppare lunghi confronti verbali, fino allo svelamento finale.
La scrittura è ricercata, raffinata, vistosa, e a volte predomina sugli eventi, reclamando uno spazio notevole; la scelta espone il testo ad alcuni cali di ritmo e fluidità.
Si segnalano, infine e in positivo, molti rimandi alla letteratura di Pier Vittorio Tondelli, rievocato con frequenza dalla parole dei personaggi. Eccone un esempio.
"La sua diversità, quello che lo distingue dagli amici del paese in cui è nato è proprio il suo scrivere, il dire continuamente in termini di scrittura quello che gli altri sono ben contenti di tacere." (p. 23)
Daniele Scalese
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