di Nathaniel Hawthorne
Rebelle Edizioni, 2025
pp. 120
€ 22,00 (cartaceo)
Lo spunto narrativo è semplice ma potente: Giovanni Guasconti arriva a Padova per studiare. Alloggia in una pensione, ma ben presto i suoi occhi si distolgono dai libri per posarsi su un giardino segreto e, soprattutto, su colei che lo abita. Beatrice, figlia del dottor Rappaccini, sembra la creatura più pura e delicata mai apparsa sotto il sole d’Italia. Eppure, qualcosa in lei, o attorno a lei, spaventa. Hawthorne non affida a rivelazioni clamorose la costruzione dell’angoscia, ma a dettagli percettivi, microscopici, che insinuano un dubbio sempre più inquietante.
Al contrario, evitava di toccarle o di inalare direttamente il loro profumo, con una cautela quasi ossessiva lasciò in Giovanni una sensazione di profondo turbamento; il suo portamento era quello di chi camminava in mezzo a influenze maligne, come fiere selvagge, serpenti velenosi o spiriti nefasti che, se solo lasciati liberi un istante, potrebbero scatenare una fatalità spaventosa. (p. 8)
È da qui che prende avvio la trasformazione di Giovanni: dalla curiosità alla passione, dalla fascinazione alla contaminazione. Beatrice, inizialmente figura angelica e misteriosa, si rivela legata profondamente alle piante cresciute nel giardino del padre, che ha trasformato la figlia in una creatura avvelenata, ma non per questo meno umana.
Il padre vede la figlia come un tramite, come uno strumento del suo esperimento. La “cura” e la “tenerezza” che esprime sono subdolamente funzionali al progetto scientifico che sta conducendo. In questa rappresentazione, Hawthorne si avvicina alle inquietudini di Mary Shelley e precorre il simbolismo morboso del decadentismo ottocentesco.
Il nodo centrale, però, esplode nel finale. Beatrice, consapevole della sua natura, rivendica la propria umanità, anche nel dolore. E lo fa con una frase che è un vero rovesciamento morale, un’accusa che inchioda Giovanni e tutti coloro che l’hanno amata solo a condizione di poterla salvare: «Oh, non è forse vero che, fin dall’inizio, c’era più veleno nella vostra anima che nella mia?» (p.105) Questa citazione non è soltanto il punto più alto del pathos drammatico del racconto: è anche una dichiarazione teorica.
Lo stile dell’autore americano si muove tra lirismo e precisione descrittiva. La sintassi è ampia, avvolgente, ricca di dettagli sensoriali e allegorie vegetali. A questo si aggiunge, in questa edizione, un apparato iconografico sontuoso e quasi liberty: Marco Calvi illustra Beatrice come una figura preraffaellita, prigioniera in una gabbia vegetale che richiama tanto l’Art Nouveau quanto le atmosfere delle fiabe nere.
La figlia di Rappaccini è una parabola gotica che parla di manipolazione, desiderio e colpa, ma anche del fallimento delle buone intenzioni. In questa nuova edizione illustrata, la storia si riveste di un’estetica potente che esalta, senza mai sovrastare, la scrittura di Hawthorne. Non è un testo che si legge solo per la trama: è un racconto da ascoltare come una musica sinistra, da guardare come un’incisione antica, da assaporare come un fiore avvelenato. Una lettura che lascia il dubbio, forse il più velenoso di tutti: chi è davvero il mostro?
Alessia Alfonsi
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