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Una triste storia d’amore, veleno e crudeltà. "La figlia di Rappaccini" di Nathaniel Hawthorne, illustrato da Marco Calvi

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La figlia di Rappaccini
di Nathaniel Hawthorne
Illustrazioni di Marco Calvi 
Rebelle Edizioni, 2025 

pp. 120 
€ 22,00 (cartaceo)

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Un giovane studente, una finestra, un giardino. E poi lei: Beatrice, figura luminosa e letale, chiusa in un mondo fiorito che profuma di morte e fascino. Inizia così La figlia di Rappaccini, racconto gotico firmato da Nathaniel Hawthorne, che questa nuova edizione pubblicata da Rebelle Edizioni rilanciata con eleganza editoriale e una notevole forza visiva grazie alle illustrazioni di Marco Calvi. La storia, già nota per la sua sottile crudeltà simbolica, diventa qui un’esperienza immersiva, quasi sensoriale, in cui il testo e le immagini si intrecciano come le radici del misterioso giardino padovano che fa da scenario all’intera vicenda. 

Lo spunto narrativo è semplice ma potente: Giovanni Guasconti arriva a Padova per studiare. Alloggia in una pensione, ma ben presto i suoi occhi si distolgono dai libri per posarsi su un giardino segreto e, soprattutto, su colei che lo abita. Beatrice, figlia del dottor Rappaccini, sembra la creatura più pura e delicata mai apparsa sotto il sole d’Italia. Eppure, qualcosa in lei, o attorno a lei, spaventa. Hawthorne non affida a rivelazioni clamorose la costruzione dell’angoscia, ma a dettagli percettivi, microscopici, che insinuano un dubbio sempre più inquietante. 

Fin dalle prime pagine, infatti, si respira una tensione tra bellezza e minaccia. Beatrice è parte del giardino e delle sue piante velenose, ma non ne è una vittima. Ne è il cuore, il centro, la sacerdotessa involontaria. Hawthorne suggerisce tutto questo con una scrittura lenta, visiva, capace di accendere nell’animo del lettore lo stesso turbamento che attanaglia Giovanni:

Al contrario, evitava di toccarle o di inalare direttamente il loro profumo, con una cautela quasi ossessiva lasciò in Giovanni una sensazione di profondo turbamento; il suo portamento era quello di chi camminava in mezzo a influenze maligne, come fiere selvagge, serpenti velenosi o spiriti nefasti che, se solo lasciati liberi un istante, potrebbero scatenare una fatalità spaventosa. (p. 8) 

È da qui che prende avvio la trasformazione di Giovanni: dalla curiosità alla passione, dalla fascinazione alla contaminazione. Beatrice, inizialmente figura angelica e misteriosa, si rivela legata profondamente alle piante cresciute nel giardino del padre, che ha trasformato la figlia in una creatura avvelenata, ma non per questo meno umana. 

In questo senso, La figlia di Rappaccini è un racconto sulla corruzione dell’innocenza, ma anche sull’ambivalenza della scienza, sul mito prometeico del controllo della natura e sull’ossessione per la purezza. Beatrice non è né vittima né carnefice. È una figura tragica, creata per amore e sacrificata in nome della conoscenza. Emblematica, in questo senso, è la scena in Beatrice parla a una pianta come fosse un essere umano: «Sì, mia sorella, mio splendore, sarà compito di Beatrice accudirti e servirti; e tu la ricompenserai con i tuoi baci e il tuo respiro profumato che per lei è come il respiro della vita» (p. 10).

Il padre vede la figlia come un tramite, come uno strumento del suo esperimento. La “cura” e la “tenerezza” che esprime sono subdolamente funzionali al progetto scientifico che sta conducendo. In questa rappresentazione, Hawthorne si avvicina alle inquietudini di Mary Shelley e precorre il simbolismo morboso del decadentismo ottocentesco. 

Il nodo centrale, però, esplode nel finale. Beatrice, consapevole della sua natura, rivendica la propria umanità, anche nel dolore. E lo fa con una frase che è un vero rovesciamento morale, un’accusa che inchioda Giovanni e tutti coloro che l’hanno amata solo a condizione di poterla salvare: «Oh, non è forse vero che, fin dall’inizio, c’era più veleno nella vostra anima che nella mia?» (p.105) Questa citazione non è soltanto il punto più alto del pathos drammatico del racconto: è anche una dichiarazione teorica.

Il veleno di Beatrice è reale, biologico, ma quello di Giovanni è spirituale, più subdolo, più socialmente accettabile, e quindi più pericoloso. Hawthorne non sembra avere dubbi su chi sia la creatura più “pura”. 

Lo stile dell’autore americano si muove tra lirismo e precisione descrittiva. La sintassi è ampia, avvolgente, ricca di dettagli sensoriali e allegorie vegetali. A questo si aggiunge, in questa edizione, un apparato iconografico sontuoso e quasi liberty: Marco Calvi illustra Beatrice come una figura preraffaellita, prigioniera in una gabbia vegetale che richiama tanto l’Art Nouveau quanto le atmosfere delle fiabe nere. 

La figlia di Rappaccini è una parabola gotica che parla di manipolazione, desiderio e colpa, ma anche del fallimento delle buone intenzioni. In questa nuova edizione illustrata, la storia si riveste di un’estetica potente che esalta, senza mai sovrastare, la scrittura di Hawthorne. Non è un testo che si legge solo per la trama: è un racconto da ascoltare come una musica sinistra, da guardare come un’incisione antica, da assaporare come un fiore avvelenato. Una lettura che lascia il dubbio, forse il più velenoso di tutti: chi è davvero il mostro?

Alessia Alfonsi

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