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Esordire a centoquattro anni. "L'anno ha perso la sua primavera", il primo romanzo di Edgar Morin

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L'anno ha perso la sua primavera
di  Edgar Morin
Guanda, maggio 2025

Traduzione di Silvia Turato

pp. 325
€ 19,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)


Non è mai troppo tardi per un esordio: a centoquattro anni appena festeggiati (8 luglio) Edgar Morin pubblica il suo primo romanzo: L'anno ha perso la sua primavera. È un romanzo autobiografico scritto nel 1946 e finora rimasto inedito, nel quale il grande sociologo e filosofo francese racconta gli anni di formazione di un giovane parigino, Albert Mercier, suo alter ego. Nell'introduzione al libro, è lo stesso Morin a narrarci la vicenda editoriale di questo romanzo:
Nel 1946 volli scrivere un romanzo in parte, con protagonista il mio alter ego. Emersero allora molti altri ricordi, tra i quali gli anni del liceo, che coincidevano con quelli fatidici seguiti all'ascesa di Hitler al potere, che portarono alla Seconda guerra mondiale. La mia penna – o meglio la mia piccola Olivetti – decise di procedere evocando l'esperienza di rifugiato a Tolosa, e poi il mio ingresso nella Resistenza. Una volta terminato e dattiloscritto il romanzo, non lo feci veder a nessuno. Sapevo di avere sufficiente ingegno per lavorare nelle scienze umane, ma dubitavo di possedere il talento del romanziere. (pp. 7-8)
Il romanzo inizia nel punto che tutti i conoscitori di Morin ben conoscono: il trauma che lui ha avuto da bambino, ovvero la morte di sua madre. È un punto cruciale anche del Morin sociologo: uno dei suoi primi libri dei suoi primi saggi è L’uomo e la morte, nel quale rifletteva sul paradosso dell'uomo che, in quanto unico essere dotato di autocoscienza, è l'unico ad avere consapevolezza della propria morte. 
Qui invece questo evento è la scintilla narrativa. Più della morte della madre, la menzogna del padre, che, per proteggere il bambino, decide di tenere nascosta questa morte. Il padre porterà Albert, che aveva dieci anni, da una zia e successivamente dirà che la mamma è partita. In realtà il protagonista capisce che la madre è morta è dentro sé questo lutto, poiché non gli è stato dato la capacità di viverlo odi condividerlo, lo porta da una parte a separarsi e a vedere le bugie degli adulti e dall'altro riflettere proprio sulla finzione sull'immaginario per esorcizzare la finitezza umana. 
Quell'idiozia, unita alla menzogna del viaggio dei genitori, gli fa orrore. Non li perdonerà mai per avergli nascosto la morte della madre e impedito di dirle addio. (p. 11)
Albert si chiude in se stesso e la sua adolescenza passa tra libri e film, nell'incomunicabilità con i familiari e con quasi tutti i suoi coetanei. Le ore trascorse al cinema, nel riparo della fantasia, delle storie altrui è un altro aspetto che ci consente di accedere all'opera di Morin (Il cinema o l'uomo immaginario è un altro testo importante nella sua produzione). 
Nella trasfigurazione della propria biografia, il momento della scelta universitaria diventa – nell'amletico dubbio della strada da percorrere – uno spunto per l'approccio transdiciplinare, che è una delle cifre del pensiero moriniano. Ma qui non vi è posto per la teoria, la pagina pulsa di vita, di emozione, di concretezza.
Albert si interroga sulla propria vocazione. Professore? Medico? Il medico cura l'umanità sofferente, che gli rivolge lunghi sguardi di riconoscenza (Mi pagherà un'altra volta - Grazie dottore). [...] Il magistrato esprime giudizi umani (Assolto! È più vittima che colpevole...). Il professore forma le giovani menti (Imparate a essere uomini tolleranti, lucidi. Sappiate che la mente non è nulla senza il cuore). Ci sono altre carriere. Il giornalismo (Si dice solo la verità nel giornale di Mercier). La diplomazie (Il progetto Mercier è il primo asso verso il disarmo generale). E altre ancora, all'infinito. I mestieri manuali, che fanno affrontare la vita attraverso il suo aspetto vero, terribile. [...] Essere al contempo colui che lavora con le mani, colui che lavora nei libri, colui che insegna, che giudica, che cura, colui che ha tutte le esperienze. Essere tutto. Ah! Non è possibile. Bisogna irrevocabilmente scegliere, da qui a dieci giorni, prima che si chiudano le iscrizioni. Ma Albert non riesce a farlo. (p. 209)

La strenua volontà di essere "universale", "uomo intero", è la spinta che anima il giovane protagonista del romanzo, il cui titolo fa riferimento a una frase di Pericle. Pericle, infatti, dopo una pesante sconfitta di Atene, tenne un discorso in cui diceva: «Venne tolta la gioventù dalla città, come se fosse strappata la primavera dall'anno».

Questo è il sentimento che all'autore lasciò tanto la morte di sua madre quanto quella di fratelli e amici della Resistenza uccisi dai nazisti. L’anno del diploma del protagonista fu infatti anche quello in cui la Francia venne occupata dai nazisti. Il giovane Albert deve decidere davvero da che parte stare. Così, appena ventenne, si unisce alla Resistenza

Una scelta stilistica molto convincente è stata quella di narrare in terza persona, nonostante il romanzo di formazione sia indiscutibilmente autobiografico. Una scelta convincente perché crea una distanza che "raffredda" le emozioni incandescenti, restituendocele in una purezza appunto trasfigurata, già materia per la riflessione. Del resto, quando un autore ha la fortuna di vivere così a lungo, ascoltare le sua memorie è come ripercorrere il cammino di una parte della storia d’Europa, attraverso una coscienza lucida e, adesso scopriamo, anche di un narratore convincente. 

Deborah Donato