di Albrecht Goes
Marcos y Marcos, 2018
Traduzione di Ruth Leiser
pp. 110
€ 15,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
L’avvenire era impenetrabile. Ma sarebbe stato colmo di forza e di vita. (p. 84)
Il narratore della vicenda, in questo testo di Albrecht Goes edito per la prima volta ad Amburgo nel 1950, è un cappellano militare, come cappellano militare era l’autore, pastore protestante, durante la seconda guerra mondiale. Il suo compito è assistere le truppe tedesche stanziate in Ucraina, ma la sua voce è anomala, non allineata: la sua professione, il suo animo indipendente, la sua fede profonda in una trascendenza su cui l’uomo non ha il controllo, gli consentono di vedere le incongruenze, le meschinità, le piccole e grandi crudeltà della guerra in generale, e della vita militare in particolare.
Che a quel punto – si era ormai nell'ottobre del ‘42 – Hitler non avrebbe più potuto vincerela guerra era assodato, per un osservatore obiettivo. […] Ma che dovevamo perdere quella guerra, se volevamo avere ancora, in futuro, una vita degna di un uomo, solo pochissimi, a quel tempo, l'avevano capito. (p. 38)
La sua sete di vita lo porta a cercare conforto nella natura che lo circonda, ancora radiosa in un autunno che già affaccia sul freddo inverno sovietico. Il suo sguardo è sensibile e attento, coglie dalle persone che lo circondano tracce di dignità, umanità, o al contrario ambizione e sete di potere, pregiudizio e asservimento ideologico. Alle sue orecchie, il saluto hitleriano è una lama che ferisce, la lingua nazista disgrega il pensiero per annientare lo spirito critico, e quando viene incaricato di assistere un disertore condannato a morte, il suo pensiero non è giudicante come quello degli alti ufficiali della Wehrmacht, ma si orienta subito all’uomo, alla sua storia ferita, alla sua tragedia imminente. Se la complicità dei conniventi – di coloro che sanno e vedono, e non si ribellano – tra cui si annovera lui stesso, rimane un’onta non emendabile, si può cercare di mantenere integra la coscienza, di riconoscere l’ingiustizia e fremere di sdegno davanti ad essa, prepararsi all’alto compito morale che aspetta gli intellettuali una volta finito il conflitto: quello di tramandare la memoria e creare un nuovo ordine, in cui non si possa replicare tutto quel Male.
Non si tratterà di odiare, allora, la guerra. L'odio, se si può dire così, è un sentimento positivo. Bisogna sconsacrare la guerra. Toglierle ogni incanto. Bisogna inculcare nella coscienza umana la certezza di come sia banale e laido questo mestiere di soldato. Che l’Iliade rimanga l'Iliade e il Canto dei Nibelunghi quel che è; ma noi dobbiamo sapere che lavorare con una pala e una zappa è più onorevole che andare a caccia di decorazioni. Dobbiamo dire che la guerra è sudore, pus, orina. Dopodomani lo sapranno tutti e lo sapranno per qualche anno. Ma lasci che passi un decennio e vedremo di nuovo crescere i miti, come gramigna. E allora ciascuno di noi dovrà essere al suo posto, con una buona falce. (p. 60)
Nella “notte inquieta” che dà il titolo a questo racconto lungo, i pensieri si agitano e alcune anime elette si incontrano: il cappellano, un giovane capitano che con lui divide la stanza all’alloggio militare, la fidanzata di lui, passata a dirgli addio. E basterebbe prendere una qualunque delle descrizioni dei comprimari per rendersi conto della penna, e dello sguardo prezioso e pieno di speranza che l’autore regala ai suoi personaggi. L’infermiera Melanie, per esempio,
era raggiante. Ma se scrivo: “Era raggiante”, queste parole non esprimono nulla. Dovrei dire: tutta la sua persona si raccoglieva in un unico raggio. Imbarazzo, timidezza, preoccupazione, angoscia, coscienza dell'addio e della morte. E la luce di un viso può essere così forte da accogliere tutti questi sentimenti, risolverli e trasfigurarli. (p. 70)
Albrecht Goes riesce a condensare in un’opera brevissima una feroce denuncia della guerra e, al tempo stesso, una straordinaria testimonianza di cura e
compassione per l’umano, anche se il contesto in cui è ambientata la
vicenda è ben lontano dall’essere pacificato. La condanna del disertore non è
in nulla dissimile, nell’ottica dei protagonisti, dall’ordine di trasferimento
che invia il capitano a Stalingrado. Vengono presentati infatti due destinatari di una diversa sentenza,
ed entrambi sanno (e lo sanno con lucidità, coraggio, rassegnazione) che, per
volontà altrui e non necessariamente per demerito, dovranno lasciare questa
terra. La notte è inquieta perché è il
tempo estremo concesso agli amanti, ma è anche il tempo dato al narratore per cercare di comprendere e accogliere la
storia di un uomo che sta per morire.
Ogni vita, ci dice Goes in questa sua opera illuminata, ha una sua cronaca,
una “storia esterna”, e poi una vicenda
intima e segreta, di cui è necessario tener sempre conto nella misura
dell’umano, quali che siano state le sue scelte. Così anche gli ingiusti, o
solo i mediocri, meritano un momento di indagine, se non di perdono («quell’ufficiale, non c’era dubbio, non aveva
nemmeno l’ombra della dignità. Ma dietro tutto questo doveva ben esserci una
storia, un certo corso di avvenimenti. E forse valeva la pena di saperla,
quella storia; conoscerli, quegli avvenimenti», p. 31).
Mentre l’esercito tedesco commina le sue punizioni, incurante delle tracce che ogni soggetto lascia dietro di sé – in termini di relazioni costruite, progetti abortiti, speranze per il futuro stroncate ancora prima di poter essere realizzate –, molte persone conducono una lotta differente, mettono in atto sempre nuove forme di resistenza all’appiattimento, all’alienazione, a chi ci vuole disumani. Ed è questa forse la primaria forma di opposizione al nazismo, la ribellione suprema, quella di chi sceglie di stare «dalla parte dei vinti» (p. 105), di testimoniare un modello radicalmente altro, di credere in una giustizia che dovrebbe poter essere anche di questo mondo, anche se spesso non lo è.
Carolina Pernigo
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