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La prospettiva dei bambini sulla guerra e sulla morte: “Il giorno del giudizio” di Jan Carson

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Il giorno del giudizio
di Jan Carson
Settembre 2022, Giulio Perrone Editore

Traduzione di Leonardo Taiuti

pp. 440 
€ 20 (cartaceo)

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Nascere e crescere in un territorio di frontiera non dev’essere facile. Non lo è per tutti i bambini che popolano le pagine di Il giorno del giudizio di Jan Carson, nati e cresciuti a Ballylack, cittadina inventata ma che ricorda qualsiasi altra cittadina dell’Ulster negli anni Novanta; e non lo è per Hannah, la piccola protagonista del romanzo, una ragazza molto seria e un po’ solitaria, anche per via dell’appartenenza religiosa della sua famiglia, protestanti particolarmente estremisti. Le linee invisibili della religione e della politica si fanno strada perfino nella classe di Hannah: undici studenti delle elementari che, come se non bastasse crescere in mezzo ai Troubles, nei disordini quotidiani di una guerra civile estenuante e incomprensibile, si trovano improvvisamente a far fronte a un’epidemia misteriosa. Che, una dopo l’altra, reclamerà le loro piccole vite.

La maestra McKeown ha detto che non sarebbe stato sempre così. Che prima o poi la situazione sarebbe migliorata. Matty ha alzato la mano e ha chiesto quanto ci volesse per far arrivare il prima o il poi. La maestra gli ha scoccato una delle sue occhiate e neanche si è disturbata a rispondergli. Forse pensava che volesse fare il sarcastico. (p. 9)

Detto ciò, il romanzo è tutt’altro che tragico. Jan Carson imbastisce una storia incredibilmente poetica, mescolando il realismo magico che la caratterizza, e che la posiziona perfettamente nel panorama letterario dell’Irlanda contemporanea, con un simbolismo ironico e pungente, che però sfugge da qualsiasi comoda equivalenza tra finzione narrativa e Storia realmente avvenuta. Come se non bastasse, Hannah infatti inizierà presto a ricevere le visite dei suoi compagni di classe, che torneranno uno dopo l’altro dal regno dei morti per parlarle, per chiedere consolazione, o d’altra parte per professare la loro felicità e assenza di rimpianti. Ciascun compagno di classe, infatti, offre a Carson la possibilità di aprire una finestra diversa da cui osservare la vita nell’Ulster degli anni Novanta, tramite le famiglie che popolano Ballylack e i rapporti che intercorrono tra di esse. E anche i racconti che i compagni di classe fanno del regno dei morti sembrerebbero simboleggiare questo modo estremo eppure così quotidiano di vivere: nella Ballylack dell’aldilà, perfino i bambini morti creano fazioni, litigano e si riappacificano, proprio come gli adulti, presi dalla loro politica e dalle loro inscalfibili posizioni contrapposte. 

Eppure il simbolismo di Carson è molto più complicato di così, ed è impossibile trarre conclusioni univoche dal finale a sorpresa del romanzo. Quella che all’inizio sembra un'inspiegabile punizione divina, si rivelerà come ben più terrena; e d’altra parte, nell’impossibilità di attribuire colpe e giudizi, l’unica strada che rimane aperta alla fine del romanzo è quella del perdono. Un perdono tutt’altro che cristiano, né cattolico né protestante, quanto vitalistico, comunitario, e in fin dei conti semplicemente umano: il perdono che solamente i bambini sanno dare con vera leggerezza.

È uno di quei giorni in cui la finestra è aperta. Le voci alla fermata dell'autobus riempiono la stanza. Un raggio di sole taglia a metà la penombra. Lo guardo danzare sul tavolinetto e sento di non voler stare in questo posto triste, a piangere. Basta. In futuro, quando sarò più grande, racconterò di questo momento alle amiche più intime e ai fidanzati. Dirò: sul serio, è stato un attimo. Ho sentito il mondo che andava avanti fuori dalla finestra e ho sentito di volerne far parte.

Marta Olivi