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«Che cos’è esattamente una droga?»: “Piante che cambiano la mente” di Michael Pollan

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Piante che cambiano la mente
di Michael Pollan
Adelphi, settembre 2022

Traduzione di Milena Zemira Ciccimarra

pp. 277
€ 20 (cartaceo)
€9.99 (ebook)

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Non c’è cultura al mondo che non abbia scoperto nel suo ambiente almeno una – e nella maggior parte dei casi tutta una serie di piante o funghi che alterano la coscienza in un modo o nell’altro (p. 14).

Osservando la copertina di Piante che cambiano la mente, non possiamo non soffermarci su quell’uomo che, dall’abbigliamento, si direbbe degli anni Cinquanta, intento a prepararsi un caffè. Sulla sinistra notiamo poi un appunto scritto nel quale leggiamo «[…] To make good coffee, use enough a heaping tablespoon for each cup», ossia «per fare un buon caffè, usa un cucchiaio colmo per ogni tazza». È da qui che vorrei iniziare: ogni mattina ci alziamo e la prima, forse seconda, azione che compiamo è quella di prepararci un caffè o un tè. Ci siamo mai soffermati, però, a pensare all’effetto della caffeina o della teina sul nostro organismo? Ecco, il volume di Michael Pollan prova a rispondere anche a questa domanda.

Il rapporto con le piante, dalle quali deriva anche la caffeina, ha da sempre accompagnato l’umanità, come materiale da costruzione o come cibo, nel caso degli alberi da frutto. Scopo non primario, però, è stato anche quello di sfruttare l’effetto di certe sostanze, contenute in alcune di esse, per alterare la coscienza. Sembra, infatti, che l’uomo abbia provato a modificare, migliorare e stravolgere la propria mente fin dai tempi più antichi. Alcune di esse sono diventate talmente di uso comune che non facciamo più caso ai loro effetti, nonostante ne siamo assuefatti.

Per quale ragione noi esseri umani facciamo tanti sforzi per cambiare la nostra mente, perché poi circoscriviamo questo desiderio universale con leggi e costumi, tabù e ansie? (p. 18).

Fin qui sembrerebbe che il volume di Pollan sia solo un testo didascalico, nel quale l’autore, con novizia di particolari, spiega la storia scientifica della mescalina, del caffè, e dell’oppio, ma non è solo questo, anzi. L’autore, sebbene non trascuri nemmeno l’aspetto antropologico e biochimico, parte dalla sua privata e personale esperienza: in virtù della scienza, infatti, Pollan ha deciso di provare “sulla sua pelle” le particolari sostanze, sperimentando quindi su se stesso gli effetti provocati.

Non sperimenta solo gli effetti, ma tenta di andare alla radice del problema, in senso letterale, poiché nel caso della prima sostanza analizzata - l’oppio -, Pollan inizierà la sua ricerca, coltivando nel suo giardino il Papaver Somniferum. Impresa che si rivela fin da subito non facile, perché, possedere questo fiore, è illegale: si rischia il carcere e la confisca della proprietà. Tra paranoie (dopo l’arresto di un suo amico per aver coltivato la stessa pianta), timori e dubbi, vede crescere i bulbi del papavero, fino alla nascita di quelle capsule da cui poi è estratta la droga.

La scorsa stagione è stata strana nel mio giardino, atipica non solo per il tempo eccezionalmente fresco e umido […], ma anche per il suo clima di paranoia. La causa ne è stata un fiore: un papavero alto, mozzafiato, con serici petali scarlatti e un cuore nero, la cui coltivazione, come ho scoperto troppo tardi, costituisce un reato per la legge statale e federale (p. 32).

Sebbene l’oppio sia universalmente conosciuto come droga, Pollan non si esime nemmeno da sperimentare su di sé l’astinenza da caffeina, il quale introdotta, non solo dal caffè ma anche dal tè, dal cacao e da numerose bevande gassate, è diventata ormai parte integrante della nostra vita, tanto che, escluderla di colpo, ci renderebbe “diversi”, come succede infatti all’autore. Pollan, decidendo così di interrompere immediatamente l’assunzione quotidiana di caffè, non sarà più lo stesso: la sua concentrazione e attenzione diminuiranno fino al punto che non sarà più in grado lavorare, tanto erano forti i suoi mal di testa, gli affaticamenti e le letargie.

Non che mi sentissi malissimo […], ma per tutto il giorno mi sentii vagamente offuscato, come se un velo fosse calato nello spazio tra me e la realtà, una specie di filtro che assorbiva certe lunghezze d’onda della luce e del suono. Nel mio taccuino scrissi: «Ho l’impressione che la coscienza sia meno limpida del solito […]» (p. 110).

Allora, per quale motivo fa così profondamente parte delle nostre vite? Perché non ci siamo voluti accorgere della sua assuefazione? Perché il suo valore culturale non può distaccarsi dalla nostra Storia, essendo stato protagonista nei momenti più significativi, rimanendo così intrecciato indissolubilmente a noi. Come ben racconta Pollan, dalla rivoluzione scientifica fino a quella industriale, attraverso l’Illuminismo, molte correnti intellettuali e culturali sono nate intorno a una tazza di caffè. I loro protagonisti, infatti, si riunivano presso i Cafè per discutere di politica, arte e cultura. Nemmeno la letteratura e gli scrittori ne sono rimasti a digiuno; molti di loro, come Honoré de Balzac o Denis Diderot, erano soliti berne molto durante la scrittura dei loro capolavori.

Honoré de Balzac era convinto che la sua vasta produzione letteraria, come il funzionamento della sua immaginazione, dipendesse da dosi colossali di caffè, consumate tutta la notte mentre narrava la commedia umana nei suoi innumerevoli romanzi (p. 126).

In Piante che cambiano la mente, natura, storia e cultura si incontrano, donandoci anche una prospettiva diversa su tante sostanze che fanno parte della nostra società. In un perfetto equilibrio tra reportage, diario e manuale, scopriamo la loro ambiguità: da una parte veleni che annebbiano le menti, dall’altra, fili naturali che collegano l’uomo con il mondo delle piante. E, sebbene nel libro sia ben presente l’aspetto scientifico, non si rimane mai estranei alle dinamiche, perché l’autore rende fruibile, grazie alla sua esperienza personale, un tema altrimenti complesso e in qualche modo troppo settoriale.

Giada Marzocchi