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#SalTo18 - Roberto Alajmo e la pudica spudoratezza di ricucirsi le ferite

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L’estate del ’78 
di Roberto Alajmo 
Sellerio, 2018

pp, 176  
€ 15 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)



Quasi alla fine del suo ultimo libro, L’estate del ’78, Roberto Alajmo riporta un particolare tremendo a proposito della tragedia del naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa. Scrive che alcuni naufraghi, ormai consapevoli della morte imminente, invece di chiedere aiuto hanno gridato il loro nome e da dove provenivano, nella speranza che qualche superstite riuscisse a raccontare di loro, quantomeno a ripetere il loro nome. 
Il nome ci definisce, ci ricorda chi siamo e lo rivela agli altri. E Alajmo dice ai suoi lettori che lui è figlio di Elena Parrino e Vittorio Alajmo ed è padre di Arturo Alajmo. L’autore parte da qui, dall’esigenza di tramandare una storia, la sua storia, e scrive un memoir in cui cerca di ricucire ferite dolorose. Innanzitutto il dolore per il distacco dalla madre – pittrice non affermata e dipendente da un barbiturico che non la curava –, che avviene senza che lui se ne accorgesse neppure in quell’estate del’78. E poi un altro dolore che arriva sempre in ritardo sui fatti – come la consapevolezza della felicità che si sta per perdere –, e cioè quello per il distacco del figlio, che cresce e, come natura vuole, a poco a poco non ha più bisogno di lui. 
Roberto Alajmo misura la distanza dai suoi genitori ma anche quella tra lui genitore e il figlio Arturo, in un continuo scivolare tra passato e presente che nasconde gli avvenimenti per poi rivelarli in altre pagine, e così facendo dà al memoir quasi un ritmo da libro giallo. Ma misurando questa distanza apre per noi lettori le sue ferite, ci conduce nella camera da letto di suo padre e di sua madre, ci rivela i suoi attacchi di ansia più profondi. Leggiamo intime pagine su un padre e un figlio che si fanno grattatine a vicenda, eppure non si ha mai la volgare sensazione di spiare le vite altrui. Alajmo non è mai eccessivo, mai sguaiato, mai morboso: la prima persona con cui racconta la storia ha l’eleganza del pudore. Insolito per un memoir, e infatti sta qui l’attrattiva del libro.
Salvatore Silvano Nigro, Roberto Alajmo e Nadia Terranova
L’onestà dell’autore si è vista con chiarezza in occasione del Salone del libro di Torino, quando lo scorso 12 maggio ha presentato il suo libro in conversazione con Nadia Terranova e Salvatore Silvano Nigro. Terranova parla di “una scrittura rigorosa, ferma, asciutta, una lente di ingrandimento pura e sincera sulla propria vita”. Nigro si sofferma sul rapporto tra la scrittura di Alajmo e le foto di famiglia inserite nel libro, foto che – risponde l’autore – “sono state selezionate non per la bellezza, ma per significanza: negli scatti sbagliati ci sono grandi insegnamenti, anche se il mio non è un libro didascalico”. 
Quello su L'estate del '78 è stato uno degli incontri più interessanti e sinceri del Salone del Libro. Ma prima ancora di presentare il suo libro al pubblico di Torino io e Alajmo ci siamo presi una pausa dagli eventi e dalla frenesia del Lingotto e con un espresso in mano ci siamo rimbalzati domande e risposte, da catanese a palermitano . 

Nel tuo memor mostri apertamente la tua vita ai lettori. Allo stesso tempo però chiami i tuoi genitori per nome, Elena e Vittorio, come fossero i personaggi di un’altra storia, non della tua. Come hai fatto a prendere le giuste distanze? 
Il materiale alla base del libro era lava ancora caldissima quando ho iniziato a lavorarci. Per riuscire a forgiare la lava si deve aspettare che si raffreddi un po’, ma non deve neanche essere troppo fredda perché bisogna arrivare al momento in cui si riesce ad agire sulla materia senza bruciarsi e senza che questa materia diventi inerte. La difficoltà è stata proprio quella di trovare questa distanza. Da un lato c’era il tempo trascorso e l’elaborazione del lutto, dall’altro in questo tempo trascorso a elaborare il lutto c’è stata anche un’elaborazione stilistica. Quindi è stato a un certo momento che io mi sono sentito sicuro dei miei mezzi espressivi, e anche consapevole di questo crinale sottilissimo che c’è tra l’eccesso di melodramma e l’eccesso di cinismo. Ma malgrado la materia bruciante che mi trovavo a maneggiare, lo stile mi ha consentito di mantenere questo crinale senza cadere né da una parte né dall’altra. 

Ma perché hai deciso di pubblicare questo libro proprio ora, a quarant’anni esatti dal ’78? 
Che fossero quarant’anni precisi non c’ho fatto tanto caso, è stato incidentale. Però ci sono delle ricorrenze di questo ’78, la legge Basaglia ad esempio. Quelli erano anni di passaggio in cui ancora, per esempio, si faceva l’elettroshock, che mia madre subì. E poi erano gli anni in cui le battaglie sull’aborto, sul divorzio erano fresche e succedeva – specialmente per le donne all’interno della famiglia – che queste porte che si aprivano improvvisamente causavano un maggiore impazzimento. Si vedeva una via d’uscita, mentre prima non c’era luce, e si cominciava a correre verso quella luce. E ci si faceva male proprio per l’entusiasmo che ci si metteva. Anche se le leggi erano state approvate, prima che il divorzio e l’aborto fossero socialmente accettati sono passati anni. E succedeva alle madri e alle donne in quegli anni probabilmente qualcosa di simile a quello che succedeva a Auschwitz, quando ci fu una recrudescenza di morti dopo la liberazione. Perché quando arrivarono gli alleati e portarono cibo, i prigionieri erano talmente abituati a non mangiare che questo cibo improvviso li ha stroncati. Sono morti per eccesso di alimentazione in un certo senso, per quel genere di aspettativa che si crea e che non può essere del tutto appagata. E l’impazzimento avviene quando si ha l’anelito della libertà: quando non si pensa che possa esistere la libertà si può ancora vivere in un’ignoranza relativamente felice. 
Roberto Alajmo e Serena Alessi

Quali sono i tuoi modelli, quelli alla base di questo memoir e soprattutto di questo continuo scivolare tra passato e presente? 
Il modello principale è Emmanuel Carrère, per come impasta le sue storie di autobiografia. In realtà rispetto a Carrère la mia è un’operazione ancora diversa, nel senso che questo libro potrebbe intitolarsi, parafrasando il titolo del suo libro Vite che non sono la mia, “Vita che invece è proprio la mia”. È un’operazione di autochirurgia, di ricucitura. Come Rambo nel film, che si ricuce la ferita e ci fa anche un po’ impressione, questo libro mi è servito a ricucire la ferita. Perché a distanza di due mesi dall’uscita posso dire che sono abbastanza pacificato rispetto a questo dolore, e anche nei confronti del mondo sono meno “arraggiato”, capisci cosa intendo, no? ["arrabbiato" in siciliano, semplificando] 

Qual è il trucco per essere così ironico, tenero e parlare di dolore, perdita e morte allo stesso tempo? 
È un’alchimia che uno trova facendolo. Io non sono un teorico, non faccio lezioni e mi tengo lontano dalle scuole di scrittura. Scrivere per me fa parte di quel genere di cose che faccio in automatico, come guidare. Lo faccio, non lo teorizzo né saprei spiegarlo. Però sì, la mia cifra più personale è questa dell’ironia, che significa distacco, prendere le distanze dai propri personaggi in modo da poterli raccontare senza quel genere di coinvolgimento che rischia di far scivolare tutto verso il melodramma. Inizialmente avevo cominciato a scrivere il libro in seconda persona, invece poi ho rivisto tutto perché questo infingimento era eccessivo. Ho accorciato le distanze usando il pronome di prima persona però, come dicevamo, i miei genitori li chiamo Vittorio e Elena. Non sono ancora coetaneo di mio padre quando morì, ma ho oltre quindici anni in più di mia madre. Ci ho messo molto tempo a scrivere questo libro. E mentre scrivevo vedevo uscirne altri che somigliavano a questo, sul rapporto coi genitori, e li andavo leggendo man mano: libri di Gramellini, Ciabatti, Petri, Mari, quello di Magrelli – bellissimo – Geologia di un padre. Probabilmente quando scrivevo il libro non avevo ambizioni diverse dal fare i conti con le mie cicatrici emotive. Poi, caso di serendipity, in qualche modo solo in un secondo momento, dopo i primi riscontri di lettura, mi sono accorto che non era solo il mio ombelico quello di cui parlavo, ma l’ombelico del mondo, e questo naturalmente mi rende molto felice. Ma anche imbarazzato, perché adesso mi trovo nella situazione di non sapere gestire i complimenti, perché è come se la gente mi vedesse nudo e mi facesse degli apprezzamenti! C’è un pudore nella spudoratezza in questo libro, che i lettori riconoscono, sanno che non è un libro che usa inutili trucchi: c’è il mestiere ma non c’è il trucco e non c’è l’inganno. È un libro in buona fede. 

È un libro con tante liste: il “repertorio delle gioie irrecuperabili” (“quel genere di piaceri che non siamo in grado di cogliere sul momento, e di cui ci rendiamo conto solo qualche tempo dopo, quando ormai sono impossibili d a conseguire o riprodurre”, p. 34), i film che dovrebbero vedere padri e figli per commuoversi insieme, …. Anche tuo fratello e tua madre compilano liste di trasmissioni televisive, di medicinali, di frequenze radio, …. È così che esorcizzi la morte nella tua scrittura? 
Sì. Considera che io sono – specialmente all’inizio della mia carriera ma ci torno sempre – uno “scrittore catastale”. Il Repertorio dei pazzi della città di Palermo, il Repertorio dei pazzi d’Italia, l’ Almanacco siciliano delle morti presunte sono tutti libri che hanno il finto intento di catalogare il mondo, sapendo perfettamente che il mondo non si lascia catalogare! E ancora Il primo amore non si scorda mai, un libro sugli oggetti e i giocattoli dell’infanzia, un libro che in effetti si rivolgeva solo alle persone tra i quaranta e cinquant’anni quando è uscito, però mi piaceva troppo l'idea di ricostruire la memoria dei giocattoli degli anni Sessanta. Il tentativo di repertoriare l’universo ce l’ho e me lo porto sempre dietro. 

Serena Alessi 
@serealessi