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Philip Kerr e il suo detective Gunther ci portano a fare un giro dentro "Il gioco della Storia"

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Philip Kerr


Il gioco della storia
di Philip Kerr
Fazi, settembre 2025

Traduzione di Stefano Bortolussi

pp. 444
€ 20 (cartaceo)
€ 9.99 (ebook)


Quando un autore come Philip Kerr ci lascia troppo presto, il suo personaggio più amato continua a muoversi nel mondo letterario senza alcuna intenzione di uscire di scena. Bernie Gunther è cinico, ambiguo, irriducibilmente vivo e ritorna tra i lettori con Il gioco della Storia (Fazi), nella traduzione di Stefano Bortolussi.


Kerr, scozzese classe 1956, aveva iniziato negli anni ’80 a scrivere gli undici thriller ambientati nell’era hitleriana. Una scelta audace, soprattutto perché affidava lo sguardo a un investigatore non allineato, un ex poliziotto di Berlino che il nazismo non lo sopportava ma da cui non sempre riusciva a prendere le distanze. Gunther non è un eroe. Kerr stesso, in un’intervista che oggi suona come un autoritratto involontario, lo riassumeva così: «È perfettamente possibile essere un eroe il lunedì e un codardo il mercoledì». E infatti Bernie è questo: un uomo che conosce bene il prezzo della sopravvivenza, che si muove su un terreno minato dove la morale non è mai in bianco e nero, ma nel grigio torbido che dà titolo al romanzo.


Questa volta lo ritroviamo nel 1954, a Cuba, sotto falsa identità. Una parentesi esotica, un’illusione di libertà. Vince al gioco un gruzzolo che gli permetterebbe di sparire per sempre, ma il destino – e Kerr è maestro nel ricordarcelo – ha la pessima abitudine di presentarsi proprio quando pensi di avergli soffiato sotto il naso. Fermato in mare dagli americani, intercettato da due agenti CIA che lo riconoscono come “un nazista”, Gunther viene trascinato di nuovo in Germania, questa volta non per indagare ma per rispondere di ciò che è stato o che si presume sia stato.


Gunther sa di essere stato contro il nazismo, ma sa anche che il mondo non funziona a misura della sua coscienza: ciò che ha fatto per sopravvivere non sempre regge sotto la lente della Storia, e ancor meno sotto quella della giustizia post-bellica. Deve raccontare, certo, ma deve soprattutto scegliere cosa omettere. Ogni omissione è una menzogna? O è soltanto un modo per rimanere vivi?


La forza del romanzo sta proprio qui: nel mostrare come il passato non sia un archivio da sfogliare, ma una trappola di specchi in cui ogni riflesso rivela qualcosa e allo stesso tempo nasconde qualcos’altro. Kerr gioca con la struttura del noir e con quella del romanzo storico, intrecciandole senza che una soffochi l’altra. La tensione narrativa è impeccabile, asciutta, con quella punta di ironia amara che è marchio distintivo di Gunther, capace di sdrammatizzare anche quando sta affondando.


Come sempre, il viaggio di Bernie è un viaggio nel cuore oscuro dell’Europa del Novecento, ma anche un esame di coscienza mascherato da spy story. Kerr ci ricorda che la Storia non è un campo da gioco neutro: chi la attraversa torna sempre con addosso un po’ di fango, anche quando cerca disperatamente di non sporcarsi “le scarpe di vernice”.


Il gioco della storia conferma ciò che da anni sappiamo: Philip Kerr non scriveva semplici thriller, ma romanzi morali travestiti da avventura. Bernie Gunther, con i suoi limiti, le sue bugie e la sua ostinata umanità, resta uno dei personaggi più complessi e irresistibili del noir europeo. Uno che non si libera facilmente – né dalla colpa, né dal cuore dei lettori.


Samantha Viva