Ragazzo
di Sacha Naspini
edizioni e/o, 2025
pp. 140
€ 16,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
Ragazzo è un racconto
feroce come sa a volte essere feroce Naspini; ha il senso di ineluttabilità scabro e disarmante, l’inquietudine de I Cariolanti, resi qui tanto più pungenti
perché calati nel presente, in quello che si apre come un romanzo di formazione,
ma che presto rivela una diversa natura. Giacomo e Matteo sono infatti due
quattordicenni, hanno da poco iniziato la prima superiore e la scelta di
frequentare il liceo scientifico li ha portati fuori dal contesto (protetto, o piuttosto
segregato?) del quartiere di pescatori in cui vivono. La provenienza da Senzuno,
del resto, associata alla loro povertà,
materiale e intellettuale, diventa quasi subito stigma, nel momento in cui si calano nel mondo esterno – le poche
fermate dell’autobus che li separano si fanno distanza siderale, esistenziale, emotiva.
I due ragazzi, a loro
volta, sembrano una coppia così male assortita che ci si chiede cosa li tenga
insieme, se non una consuetudine un po’ rassicurante, un po’ insana. I rapporti
di potere sembrano inequivocabili: Giacomo è ribelle, indisciplinato, infrange
continuamente le regole, spinto da un senso di ribellione che non riesce a
controllare e che spesso si traduce in piccoli o grandi atti di crudeltà
gratuita; Matteo è invece il gregario, incapace di relazionarsi con chi non
conosce, sempre in difficoltà con tutto ciò che non può controllare. Mentre il
primo a tratti vorrebbe smarcarsi, provare a immergersi nella nuova realtà, il
secondo attraversa le giornate nell’attesa di poter tornare nel borgo, alla
cameretta in cui sono solo loro due, alleati contro tutti. Anche perché il
confronto continuo con i compagni cittadini ricorda loro, dolorosamente, che
chi è forte nel paesello è l’ultimo degli ultimi appena lo lascia, destinato quindi
ad essere sopraffatto.
A rappresentare iconicamente questa marginalità, a Senzuno il loro posto
segreto è un piazzale «che in realtà è
più simile a una discarica» (p. 33), popolato da «ratti che sembrano cani» (p. 34), e l’ambiente in cui si muovono sembra essere, ancora una volta, segnante in senso deterministico: quale
orizzonte mentale possono avere
questi ragazzini, che vivono con adulti
assenti, che si muovono in un panorama
sterile, avaro di affetti e punti di
riferimento credibili? La scuola,
che dovrebbe farsi livellatore sociale,
è in realtà un ulteriore luogo di
sopruso – dispersivo, alienante,
e il confronto con l’esterno invece che essere apertura e rivelazione diventa,
almeno per il più fragile Matteo, una spinta a richiudersi ancora di più nel
rassicurante, nel già noto. Giacomo, invece, divorato da una rabbia oscura, da una cieca
volontà di rivalsa sul mondo, lo affronta di petto, alla cintura la pistola
sottratta al padre infermo.
La pistola inebria, la pistola dà l’illusione del potere, l’impressione che nessun prepotente potrà più avere la meglio. Anche a costo di fare di sé il prepotente. Entrambi i ragazzi non chiedono che di crescere, ma in assenza di modelli coerenti nessuno dei due sa come fare. Cosa vuol dire essere uomini? Iniziare ad avere segreti? A mentire? A fumare? La pistola pare essere per loro lo strumento di questa trasfigurazione.
In tutti questi anni non ho fatto che pensare a cosa succede quando un ragazzo diventa un uomo, nella mia testa immaginavo una cosa che si modifica lentamente, giorno dopo giorno. Invece non è così: si può cambiare in un momento. Bastano quindici colpi di pistola. (p. 85)
Per chi si trova immerso nel labirinto, è facile perdere di vista il quadro d’insieme e sentirsi sperduto e confuso, maturare la convinzione di non poterne uscire mai. A turbare il lettore è quindi soprattutto il fatto che i due ragazzi hanno del potenziale che nessuno vede o è in grado di valorizzare, tantomeno loro: Giacomo è uno straordinario disegnatore, Matteo è sensibile, premuroso, come intuisce anche la dottoressa Lussu, che lo segue in un percorso di terapia cercando di sottrarlo alle influenze non sempre positive di cui è facile preda. Nulla di tutto ciò può emergere, però, schiacciato com’è dalla pesantezza del vivere quotidiano, spesso ostile.
In questo senso, l’amicizia diventa tutto ciò che conta, tutto ciò che resta. Soprattutto per Matteo, che idolatra il compagno, più forte e a suo modo protettivo, e matura una vera e propria dipendenza da questo rapporto («ogni volta che litighiamo mi sembra che il mondo finisca: non sono più nessuno, forse neanche esisto. Giacomo è l’unico che mi può capire», p. 49). In quest’ottica, qualsiasi evento che minacci la stabilità, che esca dall’ordinario, fa paura perché altera un equilibrio, rischia di condannare a una solitudine definitiva e insopportabile – e questo vale tanto per le persecuzioni dei bulli sull’autobus, quanto per la possibilità di un nuovo amore in grado di frapporsi tra i due amici. Ecco perché la violenza diventa, per entrambi i giovani, una soluzione plausibile, forse inevitabile. Matteo e Giacomo sprofondano progressivamente in una logica completamente straniata, e straniante, da cui si rischia di farsi risucchiare.
Se i protagonisti si chiedono continuamente cosa voglia dire diventare uomini, il lettore adulto si chiede cosa sia un ragazzo, di cosa necessiti, di quale ambiente di crescita, di che tipo di società, di quali punti di riferimento. E il breve racconto di Naspini si fa allora anche appello alla coscienza, monito, invito all’attenzione e alla prudenza, nel maneggiare quell’impasto delicato, prezioso e incandescente che è l’adolescenza.
Carolina Pernigo
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