di Remo Rapino
Minimum Fax, novembre 2025
M'è rimasto 'sto marchio di Rosinello sulle spalle e con questo nome me ne sto seduto, mufo mufo, da mattina a sera alla Fontanella di Colle di Pizza. (p. 12)
I nomi sono come fili d'erba che vanno per le acque di un fiume, e vanno fino alla foce e poi si perdono nel mare, quello più grande, dove tutto diventa uguale, eterno, verde come un prato senza fine, dove i fili ridiventano persone e stanno insieme senza malimentizie, si abbracciano e ritornano felici come i bambini che corrono dietro a un pallone e non gli importa niente se si vince o si perde. Corrono e basta. (p. 86)
Rosinello mal sopporta il suo nome, ma finisce per farci l’abitudine. Ormai anziano, mette in fila i ricordi di una vita essenziale, fatta di piccole e miracolose emozioni, raccolte da una memoria spesso inaffidabile. Con un tuffo nel passato, ora spassoso ora commosso, rivive il lavoro sui libri imparato da mastro Nicola e le regole della campagna apprese sotto l’ala di Giacomino; l’idea dell’America secondo Cenzino e la sosta in ospedale; le balbuzie di Libbò – iniziate il giorno della morte di Berlinguer – e l’amore per Ginetta, a cui è mancato solo il coraggio per sposarla.
L’odissea del ricordo è dolce e dolorosa, vitale e coreografica.
Quel ritaglio di piazza è chiamato Cerchitelli, che sarebbe come dire piccole querce, ma querce non sono proprio per niente e io capisco perché lo chiamano così. A me sembrano alberi di Giuda ma ben cresciuti, che, a pensarci bene, quel nome traditore ci sta più a fagiolo, con tutti i fagioloni e i fregamidolce che ci girano in tondo. (p. 13)
Dopo essersi imposto all’attenzione nazionale con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (Minimum Fax, 2019, premiato al Campiello), Remo Rapino si abbandona qui alle gioie e alle disperazioni dei momenti passati: alle cose desiderate e mai avute, o solo sfiorate; alle fasi della sopportazione, poi agli atroci allontanamenti. Ed è in questo cammino a ritroso che la scortanza prende forma e diventa il sentimento d’accesso al romanzo.
Le colline tutte fossi e sbalzi ti stortano il destino, un attimo e il macchinario agricolo si rivotica, ti schiaccia e così sia. I poveri cristi di campagna se ne andavano così: un braccio che ti risucchia la trebbia, un ammasso di paglia che prende fuoco, un fiume che s'incazza e ti entra nelle case basse, una caduta dall'ulivo una falce che ti taglia una vena grossa, e manco una eredità di ricordi fai in tempo a lasciare quelli che restano. (p. 33)
Ma che cos’è, dunque, la scortanza?
Possiamo definirla come la malinconia dell’epilogo, quell’orlo di un precipizio a cui la vita, gradualmente, tende. È l’attesa della morte che trasforma una piazzetta di paese in una sala d’attesa per un biglietto di sola andata del nostro viaggio definitivo. La scortanza, però, non è un sentimento cupo ma romantico: spinge a dare un nome agli incontri, alle facce, ai luoghi, prima che svaniscano; a trattenere ciò che resta.
Forse la scortanza è proprio quest'aria pesante che s'accascia, mezza morta, su mille pensieri, tutto un teatro astruso che mi recita un girotondo, gira e gira la tra tutti giù per terra, una quadriglia di figure che si fermano e poi ripartono, come le nuvole, il vento, la neve, i cani senza padrone. (p. 117)
La scortanza diventa così la condizione stessa del raccontare. Il racconto dà ordine a una dinamica vitale confusa e sbrindellata, che proprio attraverso la narrazione assume una parvenza di catalogazione e razionalità: raccontando, possiamo motivare a posteriori scelte dettate dall'istinto, magari un sesto senso offuscato. Raccontare è un modo per acquietarsi, per essere più comprensivi con se stessi.
Questo può essere un altro segno della scortanza, come quando in un libro s'incontra la parola fine e allora vuol dire che non c'è più niente da fare e da dire. (p. 118)
Rapino, creando un impasto linguistico riconoscibile e unico nel panorama italiano contemporaneo, fatto di termini dialettali e neologismi, costruisce un poetico romanzo della soglia, occupando il confine tra l’esistere e il lasciare traccia. Ricorre a personaggi stupendi, gli sfasulati, cioè gli esclusi, i matti buoni che vivono ai margini di un piccolo paese abruzzese; aggiunge un nuovo capitolo alla loro epopea e dà loro voce con un linguaggio intimo, ironico e umanissimo, concedendo dignità e saggezza a chi incarna una resistenza alla durezza del mondo moderno. Personaggi che forse perdono il filo del cambiamento, ma colgono la verità più profonda dell'esistenza. E quindi Nicola, Giacomino, Cenzino, Libbò, Ginetta, e tutti gli altri: eccoli a tenersi la mano, nella danza del ricordo, forse l'ultimo, il più prezioso.
Daniele Scalese
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