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"La tigre viziosa" di Antonielli ci ricorda la responsabilità umana nei confronti del mondo animale

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la tigre viziosa



La tigre viziosa
di Sergio Antonielli
Palingenia, 2025

pp. 192
€ 26 (cartaceo)

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La tigre viziosa di Sergio Antonielli, testo dimenticato per troppi anni, riappare in una nuova edizione dopo quasi cinquant’anni di oblio; è uno di quei testi che sembrano scritti per essere riscoperti: dotati di una forza narrativa che la tradizione non è riuscita a classificare. Pubblicato nel 1954 nei «Gettoni» einaudiani sotto l’occhio attento di Vittorini e salutato con entusiasmo da Calvino e Montale, è un racconto lungo che vibra ancora di una modernità sorprendente.

Nel febbraio del 1954, Elio Vittorini scriveva a Italo Calvino: «[…] ho letto un bellissimo racconto lungo (centoventi pagine) di Sergio Antonielli. Storia di una tigre dal punto di vista della tigre. – Ma di una tigre allegorica». 

Il 24 febbraio Calvino si rivolgeva direttamente all’autore del libro: «La tigre viziosa è una lieta sorpresa. L’ho letto con grande entusiasmo. È piena d’intelligenza, scritta con limpidezza, e in questa giungla ti ci muovi con perfetta disinvoltura». 


Forte di questi due autorevoli giudizi, La tigre viziosa esce solo qualche mese dopo, nel giugno 1954. L’editore è Einaudi, che lo pubblica nei «Gettoni», la gloriosa «Collezione di letteratura» diretta da Vittorini. E nemmeno dopo l’entusiasmo si perde, attorno a quest’opera così strana. Tanto è vero che persino Montale sul «Corriere della Sera» la definì «un tour de force di abilità e fantasia pura»; fu poi riscoperta negli anni Settanta grazie a Giuseppe Pontiggia. Fu lui a sostenere la ristampa negli Oscar Mondadori, accompagnata da un’introduzione di Sergio Solmi.


Antonielli affida il romanzo alla voce impossibile di una tigre, un io narrante che domina lo spazio naturale con l’autorità del predatore e insieme con l’innocenza istintuale dell’animale. Nelle prime pagine — tra appostamenti notturni, odori, refoli di luna che illuminano una zampa — il narratore costruisce un’interiorità credibile, potentemente fisica: la giungla non è uno scenario, ma la struttura stessa della coscienza. Ogni percezione è sensoriale, radicata nel corpo, nel ritmo del respiro, nel peso del dolore. È questa adesione alla fisiologia dell’animale a rendere straordinaria la scrittura di Antonielli: limpida, precisa, mai compiaciuta, capace di restituire una soggettività non umana senza scadere nell’allegoria esplicita.

La svolta arriva con la ferita. Colpita da un cacciatore, la tigre perde l’armonia del proprio mondo: il dolore incrina la sicurezza, la fame la espone al rischio, la vulnerabilità apre un varco psicologico. In questo interstizio si colloca l’uomo: prima come nemico, poi come ossessione. Il primo incontro è segnato dal disgusto — il puzzo della morte umana, «dolciastro e freddo», un odore che infetta l’aria — ma presto qualcosa muta. Il secondo uomo, un ragazzo trascinato dalla tempesta, suscita un sentimento completamente diverso: pietà, attrazione, un’oscurissima forma di piacere. È qui che la parabola di Antonielli si fa allegorica: la tigre comincia a essere sedotta dall’umano, contaminata nella sua integrità animale. La purezza istintuale si incrina, la soglia tra necessità e desiderio si confonde.

Il sogno centrale, in cui un uomo-femmina danza trasformandosi lentamente in tigre, è il cuore simbolico del romanzo: un rito iniziatico che unisce e confonde le due nature, anticipando la decadenza finale. Il flauto dalle sette note, la metamorfosi scandita da un ritmo ipnotico: sono immagini che richiamano Kipling, certo, ma anche una dimensione più metafisica, vicina a Borges o a Buzzati. È il momento in cui la tigre vede materializzarsi ciò che la sua carne sta imparando: la seduzione dell’uomo è un destino.

Antonielli costruisce così una favola nera sul potere corruttivo dell’umano. Non è l’animale a essere feroce: è l’uomo che porta con sé il vizio, la crudeltà gratuita, il gusto di uccidere. La tigre, attirata e ingannata da questa forza, finisce per diventare fragile, quasi “umanizzata”. Non perde la sua nobiltà, ma la devia: scopre la sensibilità, e con essa la propria vulnerabilità. Come affermava Pontiggia, il suo è un decadimento dolce e inevitabile, che culmina nella morte per mano di un cacciatore, completamento di un destino già scritto.

Riletto oggi, La tigre viziosa appare come un’opera anticipatrice: un romanzo che parla di contaminazione, di metamorfosi, del confine sempre più sottile tra umano e non umano. È anche una meditazione amara sulla responsabilità dell’uomo nei confronti del mondo animale, sulla fragilità degli equilibri naturali e sull’ombra distruttiva che la nostra specie getta su tutto ciò che tocca.

Samantha Viva