Arrivati alla fine di Quello che possiamo sapere, il nuovo, straordinario romanzo di Ian McEwan abilmente tradotto da Susanna Basso per Einaudi, è la brevissima nota dell’autore a riportarci alla realtà:
I lettori eventualmente interessati sono pregati di tener presente che nulla che abbia a che fare con questo romanzo è sepolto da nessuna parte.
Tolta la direzione post apocalittica verso cui questa storia su due piani temporali a tratti ci conduce, ad apparire più veri del vero sono l’affannosa ricerca da parte del protagonista di un manoscritto perduto, la ricostruzione delle sue ricerche, gli stralci di lettere e diari di cui si compongono, i personaggi d’invenzione che si affiancano alle comparse letterarie reali, e per un attimo dimentichiamo di essere nel campo del romanzo e ci immaginiamo accanto al protagonista, l’accademico Thomas Metcalfe, alla ricerca del poema scomparso di Francis Blundy, forse sepolto in qualche landa sperduta nel Nord del Galles. È una nota ai lettori ironica, naturalmente, chiusa ideale di un testo che si fonda proprio sul confine tra realtà e invenzione, nelle diverse accezioni che possono assumere. I lettori e le lettrici di CriticaLetteraria spero mi perdoneranno se questa volta non li porto fin da principio dritti al cuore delle considerazioni critiche sul testo e se decido invece di partire da più lontano: mi giustifico dicendo che gli argomenti sono comunque strettamente connessi al testo. In realtà sarà difficile mantenere salda la rotta di questa recensione letteraria, tanti e tali sono gli spunti di riflessione suscitati dalla lettura e che si intrecciano al mondo in cui viviamo, al mio lavoro, ai grandi topoi della letteratura, alle scelte narrative.
Provo a iniziare, dunque, con una riflessione che vuole essere un consiglio a chi deciderà di avventurarsi tra le pagine di Quello che possiamo sapere: darsi tempo. Una cosa sulla quale mi capita spesso ultimamente di ragionare e confrontarmi anche con i miei gruppi di lettura e studenti dei miei corsi, in quanto infatti anche la lettura pare essere diventata attività performativa di fruizione selvaggia e frenetica, accumulo di un titolo dopo l’altro da consumarsi velocemente, nel vano e disperato tentativo di stare dietro alle novità editoriali, i testi e gli autori di cui tutti parlano, le mode del momento, il bisogno di passare presto alla cosa successiva in una sorta di FOMO senza senso. Guai, dunque, in quest’ottica, prendersi il tempo necessario per assorbire appieno le potenzialità di un testo, svelarne i meccanismi e le complessità, lasciare che sedimenti dentro di noi e soffermarsi sulle domande che tale lettura può generare. Certo da questa parte, chi fa il mio mestiere, in qualche modo rischia di alimentare quest’ansia da prestazione, snocciolando elenchi di lettura corposi e una velocità di fruizione che tante volte non è chiaro per il pubblico di lettori non professionisti che è parte integrante del lavoro, un tempo della propria giornata dedicato a questo come per altri lo è svolgere mansioni diverse. D’altra parte è vero anche che certe letture scivolano via in fretta e la pagina scorre veloce sotto gli occhi del lettore, prodotti semplici, poco o nulla sfidanti né stratificati.
Dove si colloca in questo discorso il nuovo romanzo di McEwan credo sia facilmente intuibile e, da qui, il mio consiglio sul prendersi il tempo necessario. Quello che possiamo sapere è un romanzo denso, stratificato, colto e letterario ma mai straniante, raffinato: richiede al suo lettore un certo grado di attenzione, non cerca facili soluzioni, si muove tra generi e forme diverse ed è senza dubbio un tassello fondamentale nella bibliografia dell’autore nella quale si colloca perfettamente: la narrazione attenta al dettaglio sensoriale, focalizzata sull'interiorità, l'abile costruzione narrativa, si legano nelle sue storie all'analisi della società contemporanea e della Storia, i dilemmi etici e, fondamentale, l'esplorazione della colpa, del trauma, dell'espiazione possibile, cardini anche di quest'opera.
Un romanzo che, ironicamente, ha pure una sua sorta di atemporalità per i moti universali che lo attraversano. Shakespeariano, a tratti, tanto per quella stessa capacità di raccontare i vizi – moltissimi – e le virtù – qui quasi inesistenti – dell’essere umano che per quella abilità di muoversi tra generi e linguaggi diversi, le riflessioni che si aprono come squarci, l’attenzione alla parola di cui, lo sottolineo, Susanna Basso ha saputo farsi interprete ideale. Non è un romanzo da leggere a tutti costi, dunque, per tenersi aggiornati sulle novità editoriali di cui tutti parlano, ma un romanzo per lettori appassionati, attenti, pronti a seguire McEwan e il suo – suoi? – protagonista in questo viaggio letterale e metaforico dall'inizio del millennio al 2191, in un mondo in cui solo una cosa, la complessità delle relazioni, pare essere rimasta la stessa perché tutto il resto è stato travolto dalla grave crisi climatica, il Grande Disastro e la catastrofica Inondazione che ne è conseguita e che ha stravolto l’umanità e la geografia come le conosciamo.
Un romanzo ambizioso, certo, ma mai pretenzioso che, dicevo, si muove tra citazioni letterarie, stralci di lettere e diari, per lo più d’invenzione, vedremo tra poco come e perché. In Quello che possiamo sapere McEwan tiene abilmente le fila di una narrazione che corre su doppi binari temporali, distanti ma saldamente collegati tra loro: nel 2191 l’accademico Thomas Metcalfe dedica la sua carriera alla ricerca appunto di un misterioso poema perduto – corona, per essere precisi – decantato nel 2014 dal celebre poeta Francis Blundy durante la cena per il compleanno della moglie Vivien al gruppo ristretto di amici chiamati per i festeggiamenti in quello che venne presto definito un Secondo Immortal Convivio. Nessuno a parte i presenti ha mai sentito o letto il poema di cui schiere di studiosi nel tempo si sono messi sulle tracce, senza risultati: se la pergamena donata da Blundy alla moglie è stata conservata e preservata nessuno è mai riuscito a rintracciarla. Thomas è solo il più recente tra gli studiosi interessati al ritrovamento della corona, in un momento storico in cui la letteratura e gli studi umanistici sono sempre meno importanti e le capacità intellettuali e letterarie delle persone sono diminuite inesorabilmente, anche tra le aule universitarie:
Nelle due settimane di tempo concesso, quasi una metà dei ragazzi aveva affrontato la lettura di una parte del testo assegnato, un bel po’ più del solito, anche se nessuno era riuscito ad arrivare in fondo delle novantasei pagine del romanzo. I miei studenti trovavano pressoché impossibile leggere un libro intero e farsene un’opinione, foss’anche un’opinione negativa. (p. 184)
I gravi stravolgimenti mondiali hanno consolidato il potere della conoscenza scientifica, gli scarsi mezzi e materiali a disposizione sono convogliati verso quei settori che possano garantire la sopravvivenza e il sostentamento fisico delle persone. Il mondo post apocalittico è un luogo profondamente mutato, l’Inondazione ha sommerso la maggior parte delle terre e delle città, miriadi di Atlantidi perdute per sempre. Crisi climatica, guerre e carestie devastanti, la rottura di ogni ordine ed equilibrio: l’acqua è arrivata a coprire ogni cosa e, in un certo senso, ha segnato il passaggio a una nuova epoca, una nuova fase per l’umanità e la vita sulla terra.
Se il passato non ci aveva annientati, ne eravamo comunque terrorizzati. Il nostro traguardo più alto era non essere in guerra. Non bastava raccontare a noi stessi che adesso i mari erano più puliti, e la vita vi stava facendo ritorno, e che le nostre isole sotto la luce giusta apparivano belle e lussureggianti. Tutto questo non dipendeva da un comportamento virtuoso. Era il risultato del crollo della civiltà. Ogni volta che gli esseri umani si fanno da parte, il resto del mondo vivente torna pian piano a fiorire. (p. 117)
La mente corre alle immagini di animali che durante i mesi del lockdown si riprendevano le città e le strade, mentre noi esseri umani ci eravamo appunto fatti da parte. Ma a che costo, allora, o a seguito di quale devastazione nell’invenzione letteraria di McEwan? Il mondo immaginato è una landa desolata dove la vita ha appena iniziato a tornare, il mare circonda ogni cosa, gli spostamenti da un’isola all’altra sono costosi e niente affatto sicuri. Per molto tempo Thomas conduce le sue ricerche sul poema perduto al riparo nel suo ufficio di facoltà, attraverso qualche scambio di email con un bibliotecario della Bodleiana, leggendo e rileggendo il materiale a disposizione: recarsi nel luogo verso cui sembrano convergere gli indizi scovati è pericoloso, tanto per il rischio fisico che l’avventura comporta quanto per la portata delle verità che potrebbe scoprire. Perché quello che possiamo sapere, dopotutto, è una delle tante versioni dei fatti, filtrata dalla voce di una delle protagoniste del mistero, Vivien, la moglie del poeta. Thomas si appassiona sempre più alla ricerca o, in realtà, alla donna che emerge da quei diari, dalle lettere, dalle email vecchie più di cento anni e impenetrabili.
In una narrazione che agilmente sposta il punto di vista dal 2191 al 2014, McEwan costruisce un romanzo che è insieme avvincente per il mistero con cui cattura il lettore e le svolte inattese della trama, e denso di spunti di riflessione che vanno dalla questione ambientale all’etica, dalle complessità delle relazioni alle maschere che indossiamo, l’utilitarismo e l’arte, la malattia, il lutto, il senso di colpa, l’ossessione. E se per un attimo, all’inizio della lettura, abbiamo pensato che di quegli anni duemila il protagonista fosse Blundy, bastano poche pennellate di Vivien per accorgersi che è lei il centro nevralgico della storia, con una complessità via via sempre più evidente, fino alla seconda e ultima parte in cui è lei stessa a prendere la parola e raccontare, finalmente, la propria verità. Complesso e sfuggente, il personaggio di Vivien che appare nelle prime pagine vive la lacerazione di essere un’accademica che ha rinunciato alle sue ambizioni: per occuparsi del primo marito, il liutaio Percy, precocemente affetto dall’Alzheimer, poi per farsi piccola accanto al grande poeta Blundy.
Diversi anni dopo, la sua condizione suscitava stupore tra gli amici. Attraverso una serie di successive decisioni, era finita in una piccola valle sperduta nella campagna del Gloucestershire, dove lavorava senza compenso, lontana quattro miglia dal più vicino villaggio, in un tenebroso casale stipato di settemila volumi. Mai avrebbe immaginato di poter abbandonare una carriera, una vocazione perfino, per mettersi al servizio del genio di un altro. (p. 7)
Come stanno realmente le cose, quanto di vero c’è in quello che fino a quel punto crediamo di aver capito, lo scopriremo davvero solo nella seconda parte della storia. Quel che resta valido sono le tante riflessioni su ambizione, repressione, colpa, sminuzzate in questa narrazione che trovano voce in forma diversa in tutti i personaggi femminili che la popolano, Vivien e Jane (la sorella di Francis), su tutte le altre. Ma lungi dal farne eroine tragiche monodimensionali e senza peccato contrapposte a uomini crudeli ed egoisti – certo alcuni di loro sono principalmente questo nel romanzo – McEwan si muove per allusioni, mostra la malleabilità del reale e della memoria, la meschinità che non ha confini di genere. Tra gli innumerevoli spunti su cui si innescano domande e riflessioni, le ombre che si nascondono in un matrimonio e l’immagine di noi che scegliamo di mostrare al mondo fungono senza dubbio da catalizzatori per ampie considerazioni dentro e fuori dalla pagina, in una concatenazione di rimandi e considerazioni che vanno dall’interrogativo se la felicità coniugale si fondi più sulla comunanza intellettuale o sul sentimento al ruolo dello scrittore-personaggio, passando per i ruoli all’interno della coppia e il doppio standard di giudizio, le convenzioni che si scelgono di assecondare anche a costo di tradire sé stessi o l’immagine che di sé stessi si vuole dare al mondo.
Ogni cosa è salda nelle mani dell’autore, le digressioni pure numerose sono sempre tanto funzionali quanto ammalianti e quello che possiamo sapere, della verità di questa storia, degli squarci che apre, dei confini di genere che attraversa, ci riallinea con la grande Letteratura e il senso ultimo del romanzo: mediante una scrittura che non cerca o ha bisogno di sperimentazioni, McEwan ci ricorda che compito della letteratura non è fornire risposte ma spingere il lettore a porsi le domande, scardinare le nostre certezze, costringerci a dedicarvi tutta la nostra attenzione.
Debora Lambruschini

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