Da bambina, pensavo ci fosse un segreto. Un segreto che i grandi nascondevano ai piccoli. Il giorno della sua divulgazione segnava l’ingresso nell’età adulta. Ormai sapevamo, eravamo stati integrati, eravamo cresciuti e sarebbe stato per sempre. Ma nell’attesa di questa intronizzazione non capivamo nulla e assistevamo a tutto: questa serie di rinunce, questo logorio, questo sfacelo. Continuo a pensare che ci sia un grande segreto, una cospirazione mondiale per tenere i bambini all’oscuro di ciò che è la vita. A meno che non si tratti di un piccolo segreto, di un trucco da prestigiatore, un raggiro, un imbroglio. O forse il segreto è che non c’è nessun segreto e che la vita è così brutta come appare. (p. 316)
Rebecca Lighieri, pseudonimo della scrittrice marsigliese Emmanuelle Bayamack-Tam, docente di letteratura francese e autrice di numerosi romanzi firmati sia con il proprio nome sia con lo pseudonimo, con Il club dei bambini perduti è arrivata finalista al premio Goncourt, confermando la sua capacità di muoversi tra registri narrativi difficilmente classificabili. Il romanzo sfugge infatti a ogni etichetta: potrebbe essere letto come una riflessione sul legame genitori-figli, come un racconto di formazione, come la storia di un rapporto privilegiato tra padre e figlia, e, al tempo stesso, come una meditazione sull’amore nelle sue forme più impalpabili.
Al centro c’è Miranda, figura sin dall’inizio circondata da un’aura di enigmaticità: capelli biondissimi dal riflesso lunare, corpo esile, presenza apparentemente dimessa, in netto contrasto con la vitalità scenica dei genitori, Armand e Birke, attori teatrali carismatici e quasi abbaglianti. Nella seconda parte del romanzo, attraverso la sua stessa voce, la superficie si incrina e mostra quanto quella ragazza, soltanto in apparenza anonima, sia in realtà un universo complesso, un intreccio di ombre e bagliori, un essere marginale, ma attraversato da una ricchezza interiore che smentisce ogni facile definizione.
Il romanzo è costruito su una struttura bifonica: due voci che non si sovrappongono, ma si illuminano a vicenda. La prima è quella di Armand, il padre, che ripercorre la vita della sua unica figlia dalla nascita alla giovinezza, restituendo l’immagine di una bambina diversa dalle altre, fonte di inquietudine e interrogativi per lui e per Birke. La seconda voce è quella di Miranda, che diventa la narratrice dominante e rivela ciò che nella prima parte affiorava solo come sospetto: i fenomeni paranormali che la circondano, le percezioni inspiegabili, la zona di mistero che avvolge la sua esistenza e che Armand è l’unico a intuire davvero. Birke, raffinata, seducente, apparentemente impeccabile, rimane invece incapace di instaurare con la figlia quel legame profondo che invece unisce Miranda al padre, e questa distanza materna acuisce il senso di solitudine e straniamento della ragazza.
Con Birke parliamo di tutto tranne che di Miranda. O, a essere più precisi, parliamo di lei senza parlarne, sempre in modo leggero, concreto e positivo. La nostra franchezza non la tocca. La nostra brutalità la risparmia. È così che, insieme, siamo riusciti a essere genitori. Genitori terribili, probabilmente, ma pur sempre genitori. (p. 14)
Ci sono persone che nulla può spezzare. Se la vita gli spara in faccia tonnellate di merda, loro la asciugano, si rialzano e vanno avanti. E se si presenta un’occasione di fare festa la colgono. Birke è così, ancora oggi. Eppure non sta bene. Soffre nel vedere la sua carriera affievolirsi, proprio lei di cui sono tanto celebrati il talento singolare e l’abbacinante bellezza. (p. 296)
Mi piace in un modo che non riesco a spiegarmi e che non ha a che fare con il suo bell’aspetto. Di strafichi me ne sono fatta già parecchi, tizi e tizie belli da togliere il fiato: Swan è solo un ragazzo carino, eppure risveglia in me un’emozione antica, un’emozione di cui ho deciso di fidarmi. (pp. 196-197)
Avevano resistito ventisette anni e non era affatto male. Ventisette anni di lucidità estrema valgono cento anni di cecità nella vita di un individuo medio. A ventisette anni erano già consumati, bruciati, finiti. La tossicodipendenza non c’entrava nulla con la loro rovina. E ancor meno con la loro morte. Sarebbero morti comunque senza l’aiuto dell’alcol e delle droghe. […] Erano programmati per durare ventisette anni. (p. 317)
Social Network