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“You know I’m no good” . Un romanzo in limine: Miranda e il segreto che gli adulti non rivelano ne “Il club dei bambini perduti” di Rebecca Lighieri

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Il club dei bambini perduti
di Rebecca Lighieri
66thand2nd, 31 ottobre 2025

Traduzione di Valentina Maini

pp. 420
€ 20,00 (cartaceo)
€ 14,99 (eBook)

Da bambina, pensavo ci fosse un segreto. Un segreto che i grandi nascondevano ai piccoli. Il giorno della sua divulgazione segnava l’ingresso nell’età adulta. Ormai sapevamo, eravamo stati integrati, eravamo cresciuti e sarebbe stato per sempre. Ma nell’attesa di questa intronizzazione non capivamo nulla e assistevamo a tutto: questa serie di rinunce, questo logorio, questo sfacelo. Continuo a pensare che ci sia un grande segreto, una cospirazione mondiale per tenere i bambini all’oscuro di ciò che è la vita. A meno che non si tratti di un piccolo segreto, di un trucco da prestigiatore, un raggiro, un imbroglio. O forse il segreto è che non c’è nessun segreto e che la vita è così brutta come appare. (p. 316)

Rebecca Lighieri, pseudonimo della scrittrice marsigliese Emmanuelle Bayamack-Tam, docente di letteratura francese e autrice di numerosi romanzi firmati sia con il proprio nome sia con lo pseudonimo, con Il club dei bambini perduti è arrivata finalista al premio Goncourt, confermando la sua capacità di muoversi tra registri narrativi difficilmente classificabili. Il romanzo sfugge infatti a ogni etichetta: potrebbe essere letto come una riflessione sul legame genitori-figli, come un racconto di formazione, come la storia di un rapporto privilegiato tra padre e figlia, e, al tempo stesso, come una meditazione sull’amore nelle sue forme più impalpabili

Al centro c’è Miranda, figura sin dall’inizio circondata da un’aura di enigmaticità: capelli biondissimi dal riflesso lunare, corpo esile, presenza apparentemente dimessa, in netto contrasto con la vitalità scenica dei genitori, Armand e Birke, attori teatrali carismatici e quasi abbaglianti. Nella seconda parte del romanzo, attraverso la sua stessa voce, la superficie si incrina e mostra quanto quella ragazza, soltanto in apparenza anonima, sia in realtà un universo complesso, un intreccio di ombre e bagliori, un essere marginale, ma attraversato da una ricchezza interiore che smentisce ogni facile definizione. 


Il romanzo è costruito su una struttura bifonica: due voci che non si sovrappongono, ma si illuminano a vicenda. La prima è quella di Armand, il padre, che ripercorre la vita della sua unica figlia dalla nascita alla giovinezza, restituendo l’immagine di una bambina diversa dalle altre, fonte di inquietudine e interrogativi per lui e per Birke. La seconda voce è quella di Miranda, che diventa la narratrice dominante e rivela ciò che nella prima parte affiorava solo come sospetto: i fenomeni paranormali che la circondano, le percezioni inspiegabili, la zona di mistero che avvolge la sua esistenza e che Armand è l’unico a intuire davvero. Birke, raffinata, seducente, apparentemente impeccabile, rimane invece incapace di instaurare con la figlia quel legame profondo che invece unisce Miranda al padre, e questa distanza materna acuisce il senso di solitudine e straniamento della ragazza.

Con Birke parliamo di tutto tranne che di Miranda. O, a essere più precisi, parliamo di lei senza parlarne, sempre in modo leggero, concreto e positivo. La nostra franchezza non la tocca. La nostra brutalità la risparmia. È così che, insieme, siamo riusciti a essere genitori. Genitori terribili, probabilmente, ma pur sempre genitori. (p. 14)

Attorno alla figura di Miranda ruota un universo familiare complesso e altrettanto contraddittorio, in cui i legami affettivi si intrecciano con traumi del passato che vengono rivelati nel romanzo. Armand incarna un amore profondo e fragile che si manifesta nella sua fatica a comprendere appieno la natura sfuggente della figlia, Birke è magnetica e magnifica, ma non riesce a rompere quella barriera emotiva che la allontana dalla figlia. Forse in virtù del suo terribile trauma familiare? 
Miranda con grande ammirazione dirà di lei:
Ci sono persone che nulla può spezzare. Se la vita gli spara in faccia tonnellate di merda, loro la asciugano, si rialzano e vanno avanti. E se si presenta un’occasione di fare festa la colgono. Birke è così, ancora oggi. Eppure non sta bene. Soffre nel vedere la sua carriera affievolirsi, proprio lei di cui sono tanto celebrati il talento singolare e l’abbacinante bellezza. (p. 296)
I nonni, sia quelli materni che quelli paterni, sono figure marginali all’interno del romanzo, ma aggiungono ulteriori interessanti sfumature, (soprattutto i primi): sono presenti, contribuiscono alla “normalità” della vita di Miranda, ma hanno poco ascendente su di lei. E poi c’è Swan, il fidanzato della protagonista: è un bel ragazzo, attraente, sicuro di sé ma che è - a detta di Armand che avrebbe voluto per la figlia un uomo brillante e intelligente almeno quanto lei - un attore mediocre e un giovane insignificante. Attraverso la bifonia del libro, il lettore scoprirà quanto siano contrastanti la visione che Miranda e Armand hanno di Swan. E per la prima non si tratta solo della cecità del’amore:
Mi piace in un modo che non riesco a spiegarmi e che non ha a che fare con il suo bell’aspetto. Di strafichi me ne sono fatta già parecchi, tizi e tizie belli da togliere il fiato: Swan è solo un ragazzo carino, eppure risveglia in me un’emozione antica, un’emozione di cui ho deciso di fidarmi. (pp. 196-197)
La narrazione a due voci permette a Lighieri di mettere a frutto un duplice sguardo sul mondo: da un lato quello adulto, razionale e insieme vulnerabile di Armand, che tenta di interpretare l’enigma della figlia attraverso le categorie dell’esperienza, dall’altro quello di Miranda, che sovverte qualsiasi logica e introduce il lettore in una dimensione in cui il soprannaturale è calato nel tessuto narrativo con estrema naturalezza come se fosse “semplicemente” una forma diversa di percezione. 
La spettacolarità dei fenomeni che la toccano sono vissuti da Miranda non come eccezioni, bensì come parte integrante della propria identità, ed è proprio questa accettazione a spiazzare il lettore, ancora più degli eventi in sé. Lighieri sfrutta questa dialettica per indagare il tema della diversità, non come marchio, ma come intensità del sentire, come possibilità di cogliere ciò che gli altri scartano. 

Il romanzo si muove allora lungo il filo di lama, tra realtà e percezione, in questa zona intermedia costruisce la figura di Miranda, una protagonista affascinante perché sfugge alle categorie psicologiche tradizionali. Il club evocato dal titolo non rimanda a una comunità chiusa, a una setta o a un gruppo organizzato, ma a un’appartenenza sotterranea, quella dei bambini che percepiscono il mondo nella sua crudezza, prima che l’età adulta imponga distanze, filtri, autoinganni. Miranda sembra far parte di questa confraternita invisibile, di un’umanità che conosce troppo e troppo presto, e che per questo appare fragile, spaventata, incompresa. Nel suo club Miranda riconosce artisti come Kurt Cobain, Amy Winehouse, Jean-Michel Basquiat «arrivando alla conclusione che tutti e tre erano come me: dei freak, dei mutanti, degli egregori…» (p. 317).
Avevano resistito ventisette anni e non era affatto male. Ventisette anni di lucidità estrema valgono cento anni di cecità nella vita di un individuo medio. A ventisette anni erano già consumati, bruciati, finiti. La tossicodipendenza non c’entrava nulla con la loro rovina. E ancor meno con la loro morte. Sarebbero morti comunque senza l’aiuto dell’alcol e delle droghe. […] Erano programmati per durare ventisette anni. (p. 317)
Il club dei bambini perduti è un romanzo indimenticabile che racconta l’inquietudine di chi vive ai margini, la fatica di essere compresi proprio come canta Amy Winehouse You know I’m not good , un ritornello che risuona nell’anima di Miranda e nel cuore di chi come lei, porta il peso di un segreto che il mondo non è pronto ad accettare.

Marianna Inserra