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Un romanzo distopico che piacerà molto ai fan di Margaret Atwood: la storia d'empatia e umanità di Margaret e Jaminder

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Dolce il frutto, aspra la terra
di Rebecca Ley
Edizioni Tlon, novembre 2025

Traduzione di Marta Olivi

pp. 335
€ 19 (cartaceo)
€ 10,99 (e-book)

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Mi chiedo cosa penserebbe se le mostrassi un'immagine di me e Mathilde prima che ce ne andassimo, quasi cinque anni e mezzo fa. In un altro mondo, in un altro tempo, cinque anni non sarebbero stati niente. Ma ci guardo adesso, e dalle rughe sulla pelle, dalla stanchezza, sembriamo invecchiate di quindici anni. Una volta si diceva: sei quello che mangi. Ho paura che noi stiamo diventando niente. Cosa non darei per vedere un peperone lucido, gonfio, rosso brillante; tagliarlo in due con un coltello e mangiarlo crudo, sentire la faccia che si riempie del suo rossore e gli occhi che si accendono. Cosa non darei.

«Davvero?», le dico. Vorrei chiederle se mi sta men-tendo. Vorrei chiederle: stiamo davvero tenendo a bada la fame da lupi? […] Penso: in quel secondo in cui ride, non sta pensando alla fame, quindi, per oggi, ho fatto il mio dovere. La verità è che ci penso sempre. La fame è una cosa così elementare, ti sta sempre addosso. Sposta la linea di confine tra la realtà e i lupi che mi ballano dentro la testa. Ma poi penso, i lupi veri non esistono. Perché se esistessero, se ne fosse rimasto qualcuno, mio Dio, me li mangerei. (pp. 155-156)

In un mondo che ha perso le sue coordinate e che tanto ricorda le atmosfere distopiche di Margaret Atwood ne Il racconto dell'ancella (il "frutto" del titolo ne è solo un esempio immediato) Rebecca Ley - autrice di questo romanzo vincitore del Not the Booker Prize 2018 - ci regala una storia di lotta, speranza, umanità. Una lezione di empatia.

Siamo in una Londra quasi apocalittica, in un tempo vago, forse un futuro possibile: la monarchia è caduta, sostituita da un regime regolato da una misteriosa Mrs. P - una sorta di Prime Minister che non so perché ma mi ha ricordato Margaret Thatcher - il cibo è insufficiente, le guerre imperversano in tutto il mondo, i confini sono infranti, i Paesi e le loro culture cancellate. Esiste solo la fame, e per chi è più fortunato un'unica via per sopravvivere: se si è uomini, ragazzi, o persone anziane, il lavoro e i razionamenti ottenuti tramite tessere; se si è donne, e giovani, la procreazione. Non volere figli è diventato illegale. Anche dirlo ad alta voce è illegale. 

Conseguenza di una natura che si è forse ribellata e che ha decimato la popolazione mondiale, la politica più logica, secondo il regime, è ripopolare la terra, anche in mancanza di mezzi per sostentare i nuovi nati: una contraddizione, eppure, come sempre, il popolo si adegua agli ordini dei pochissimi ricchi rimasti. Ricchi che si godono la vita: feste, cibi che ormai sono diventati un lusso, alcol, tabacco, musica, sesso con precauzioni. Una bolla dorata in cui si incontrano le nostre due protagoniste, Mathilde e Jaminder, entrambe a causa e grazie a qualcosa che sanno fare: la prima, cucire, la seconda, suonare il pianoforte. 

La narrazione si divide in otto capitoli che alternano ora la voce di Mathilde, ora quella di Jamider: Mathilde, francese di nascita, costretta insieme alla nonna materna a lasciare il Paese a causa di questo evento catastrofico chiamato blackout, ci racconta il passato, le vicende che sono accadute prima; Jaminder, originaria del Kenya, pianista, invece ci racconta il presente. Prima di cosa, esattamente? Prima di ritrovarsi a nord, in Scozia, a morire di fame e con un bambino a cui badare, Hugo. 
Ci si chiede di chi sia figlio, se di Mathilde o di Jaminder, e chi sia il padre, in un mondo in rovina in cui nessuna della due desiderava diventare madre

«Probabilmente sono fuggiti di corsa», dico.

«Abbiamo tutti fatto così, no?», dice Ruby.

Sì, è andata così anche quassù, proprio come a Londra. Una sera, le persone erano a tavola, cenavano. Restava poca elettricità. E di botto tutte le luci si sono spente. Rabbrividisco al pensiero che Hugo abbia visto tutto questo. Che abbia visto tantissime città come questa, sin da quando è nato, e che questo sia tutto ciò che sa. Ci chiede cosa è successo e Mathilde non dice una parola. Non sa cosa dire. Si sente in colpa per averlo portato via. Tutto quello che posso dirgli io è questo: l'abbiamo rotto. Ci è stato dato il mondo e ci siamo presi tutto, e poi un giorno non è rimasto più niente. (pp. 226-227)

A legarle è infatti una figura maschile, quella portante, George: uno dei ricchi, uno di quelli che se volessi ti porterebbe una cassa di pesche. Frutto diventato rarissimo, per inciso. Al suo personaggio si agganciano due fili narrativi: l'importanza delle parole e dei ricordi, soprattutto quelli legati al cibo, e la possibilità di salvezza di entrambe le donne, ciascuna in modo diverso e con risvolti sorprendenti. Jaminder nei suoi capitoli si rivolgerà sempre a lui, come a un ascoltatore; Mathilde invece lo ricorderà come un evento passato, come qualcosa di superato, che tuttavia le ha permesso di avere quel poco che possiede, un figlio e un'amica-amante. 

La questione del cibo, nelle sue descrizioni, nella sua scarsità e abbondanza, è fondamentale sin dal titolo: sia Mathilde che Jaminder vi indugeranno parecchio, dirottando ciò che conoscevano e davano per scontato su due binari diversi, la prima cercando di dimenticare, la seconda cercando di ricordare. Entrambe però ricondurranno il cibo alla famiglia, alle madri, ai nonni, alle vite che hanno perso. 
E se il cibo è importante quale nutrimento tanto per lo spirito quanto per il corpo, saranno entrambe - insieme ad altre figure femminili, come Gloria e Gwendolyn - a sottolineare anche che quel corpo non serve solo a loro stesse, ma è strumento di sfruttamento politico, sessuale, che serve anche a desideri non propri. Di chi allora? Di George, di Mrs. P, dei medici che intimano alle donne sotto i 25 anni di sbrigarsi a fare figli, della fame. Perché - ti promettono - sei diventi madre sarai trattata meglio.

A volte, camminando per questo villaggio sempre più spopolato, che sopravvive solo grazie alla fabbrica di Mrs Campbell, dico queste cose ad alta voce. Non le dico a Dio e nemmeno a te, ma solo a me stessa, per sentirle. Le dico nella semioscurità, e le ripeto ancora e ancora. E mentre le dico, mi immagino che le cose che dico siano reali, e immaginarle è una piccola sazietà. Cosicché quando ritorno a casa, dalla mia Mathilde, non devo dirle a lei. Non devo renderle reali anche per lei. Formaggio, dico, pollo al curry, toast al formaggio con i porri, dhal cremoso. Melanzane gommose e mirtilli. Manzo, midollo, ghee. Kulfi. Kulfi cremoso. Kulfi santo. È un modo per rimanere sana di mente, per non dimenticare. È un'implorazione, ma c'è anche speranza. È il mio banchetto. Mathilde mi chiede cosa stessi facendo e io rispondo che stavo pregando. Non so se questa risposta la turbi più di quanto farebbe la verità. (pp. 64-65)

Ma sarà davvero così? Atwood ci ha insegnato che no, non è così, e questo romanzo non fa differenza. Dunque seguiamo le due donne alle prese con la povertà, con la lotta, con la speranza di una sopravvivenza a tutti i costi. Mathilde ricostruisce e chiarisce per noi tutto ciò che è stato e le motivazioni che hanno spinto lei e Jaminder a fuggire da Londra, e Jaminder ci regala il suo punto di vista sugli stessi eventi ma raccontandoci anche il presente che sono costrette a vivere, un presente che hanno scelto consapevolmente e forse, anche, senza cognizione di causa. 

Se Mathilde rimane piantata coi piedi a terra, cercando di aggrapparsi al bambino, Jaminder non riesce a evitare di insegnargli che una volta esisteva un mondo diverso, migliore, un mondo in cui avrebbe potuto dargli di più. 

Non era forse quella la mia lingua madre, la gentilezza che mi ha insegnato mio nonno, e il saper stare da soli ogni volta che se ne sente il bisogno? Forse è così che mi ha insegnato a parlare. Così come forse anche il cibo è un linguaggio, e se lo è, è un linguaggio che abbiamo perso. Ne sentirò per sempre la mancanza, più del punjabi che non ho mai imparato, e che Hugo non imparerà mai, e più del francese. Sarò in lutto per tutti i dosa che non potrò mai dargli, e i jalebi sciropposi e zuccherosi che non assaggerà mai, e gli spaghetti col burro, come me li preparavo ogni sera nel mio appartamento dopo che i miei nonni mi avevano abbandonato a me stessa, avevano abbandonato tutto il mondo. Sarò per sempre in lutto per tutta la cultura che lui non avrà mai, e per tutte le cose che non conoscerà. Forse la musica è l'unica cosa che posso dargli. Forse è l'unica cosa che mi rimane, e mio nonno aveva ragione, dovrei solo decidere e poi darmi da fare. Dovrei solo abbandonarmi a lei, senza resistenze. (pp. 174-175)

Un romanzo sull'importanza della memoria, dell'umanità, dell'empatia: perché quando non rimane nient'altro al mondo, quando la fame che ti torce le viscere è tutto ciò che conosci e che puoi lasciare in eredità a un figlio, non resta che sforsarsi di rimanere umani, fermi sul dolore degli altri.  
Piacerà molto agli amanti dei libri distopici, a chi ha letto Margaret Atwood e a chi crede che, se non cambiamo velocemente rotta, il nostro pianeta prima o poi ci porterà il conto su un piatto d'argento.

Deborah D'Addetta