E se fosse lei il vaccino riconciliante con quel paese dove non ho mai più messo piede? Mi chiese e la domanda tornò a colpirmi come un boomerang, un coltello contro la memoria di me, dei miei diventati concime in quella terra mille volte maledetta! Mi detestai per il solo pensiero, anche se i lampi della ragione la ritenevano un’idea sana, benefica, forse possibile. (p. 18)
L’amica tedesca è un romanzo breve e intenso che Edith Bruck ha custodito per anni, prima di decidere di pubblicarlo. Il rifiuto iniziale da parte di un editore, motivato dalla presenza di temi allora considerati “scabrosi” come l’omosessualità femminile e gli abusi sessuali, rivela molto non solo sulla vicenda editoriale del testo, ma anche sulla sua forza dirompente. A distanza di decenni, la scelta della Nave di Teseo di pubblicarlo assume il valore di un atto di giustizia letteraria e civile: restituire voce a una storia che la società non era pronta ad ascoltare. La postfazione di Michela Meschini chiarisce che la vicenda narrata è autentica.
La protagonista, alter ego dell’autrice, intreccia un legame profondo con una giovane donna tedesca, Lena, amicizia che porta in sé il peso di una contraddizione insanabile: quella tra vittima e carnefice, tra la sopravvissuta alla Shoah e la discendente del popolo responsabile dello sterminio. La relazione tra le due diventa così una forma di confronto estremo con la memoria, una possibilità di avvicinarsi al perdono senza mai poterlo realmente compiere.
Lena è una figura di tragica delicatezza. Con il suo aspetto bamboleggiante, i fiori e le farfalle nei capelli, appare come un’eterna bambina che non ha mai potuto crescere. Il suo passato è segnato da una catena di abusi subiti da uomini che avrebbero dovuto proteggerla; violenze che ne hanno distorto per sempre la percezione del desiderio e dell’intimità.
“Vuoi mandarmi via? Ti ho messo di cattivo umore, io ti ricordo sempre le cose buie, cosa posso fare? Il mio amore sarebbe la migliore medicina naturale per te! Cara, cara mia Liebe, vado?” Si sollevò e fece qualche passo lieve come fosse una grande bambola gonfia priva di organi reattivi che non davano segno di vita neppure mentre raccontava dell’uomo-cane, del finto chirurgo, di sé vedova nuda con i veli neri nella foresta innevata, e chissà a quali altri giochi aveva giocato a pagamento, se era tutto vero e se vomitava durante lo stupro.“Adesso sono pulita con te,” ripetè in punta di piedi sulla porta spalancando i suoi occhi nei miei come fossero il Gange dove purificarsi.“Tu sguazzi nella vita come un maialino felice nel fango senza sporcarti. […] (p. 32)
L’amica tedesca esce in un momento storico in cui l’antisemitismo riemerge con inquietante virulenza, alimentato anche dai conflitti contemporanei in Medio Oriente. La pubblicazione del romanzo, perciò, non è soltanto un fatto letterario, ma un gesto di resistenza morale: la memoria, suggerisce Bruck, non è mai archiviata, e il dialogo con “l’altro” , anche quando impossibile, resta l’unica via per non soccombere alla barbarie. La fotografia che ritrae l’autrice accanto alla vera “amica tedesca” restituisce il senso più profondo del libro: la vita che tenta, con fragilità e coraggio, di riconciliarsi con il passato. In questo tentativo sta la sua grandezza. Dirà l’autrice nella Postfazione:
“Non potevo minimamente immaginare di fare amicizia con una tedesca. Era un mio limite sia chiaro. Mi è costata una fatica enorme farmi avvicinare da una tedesca. Pur non conoscendo cosa sia l’odio, la ferita eterna che ho vissuto con la deportazione nei lager nazisti non si può mai rimarginare. Confesso che per me, allora, era molto difficile perfino pronunciare una parola in tedesco o viaggiare in Germania, dove sono tornata un paio di volte e sono stata sempre male. […] La vita della mia amica tedesca era molto triste, ma lei sembrava non rendersene conto. […] Aveva avuto un’infanzia terribile, una vita infernale. Era orfana anche lei, in qualche misura. Era vittima della fede nazista della madre”. (pp. 109-110)

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