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“Le frasi rubate” di José Luis Sastre: un esordio promettente che convince a metà

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Le frasi rubate
di José Luis Sastre
Salani, 30 settembre 2025
 
Traduzione di Sara Cavarero
  
pp. 208
€ 18 (cartaceo)
€ 10, 99 (ebook)

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Se mandano fiori, brontola. Se chiamano per sapere se ha riposato, brontola. Se il modo di augurargli il buongiorno gli suona come quello che si usa con i malati e gli spacciati, brontola. Il resto del tempo è di buon umore. Non vuole che gli parli del medico, né che gli chieda delle medicine, né che mi preoccupi per un eventuale peggioramento, come se non parlarne potesse tenere tutto questo lontano. Quello che vuole mio padre è capire se sente ancora il sapore del pomodoro e dell’arancia e del cioccolato e sorseggiare fino all’ultimo goccio del bicchiere, e intingere il pane ancora caldo in un po’ d’olio di quello buono. Vuole un momento per chiudere gli occhi e potersi dire: ancora. (p. 59)

“Forse il problema sono io” – ho pensato – “che mi sono fatta di nuovo adescare dall’etichetta che proclamava un nuovo caso letterario”. Qualunque cosa voglia dire, questa strana e attraente espressione, ultimamente molto in voga. Ho pensato così dopo le prime pagine dell’esordio da romanziere del giornalista spagnolo José Luis Sastre, Le frasi rubate, uscito di recente per Salani nella traduzione italiana di Sara Cavarero.

Il punto – quello che mi ha fatto storcere il naso mentre sbirciavo l’incipit – è che, pur conoscendo la trama, mi chiedevo come avrei potuto proseguire con curiosità nella lettura quando il romanzo si apriva come segue: «Mio padre morirà questo mese, forse il prossimo. Lui lo sa, e io anche».

“E adesso lo so pure io” – ho pensato – che già lo sapevo, in realtà, ma speravo di arrivarci in altro modo: un modo qualsiasi che non fosse una dichiarazione tranchant in apertura. Ho iniziato a riflettere sul peso determinante di un buon inizio, perché il pregiudizio è duro a morire: distorce, come una lente, tutto quello che incontra. Avendo trovato debole l’avvio del romanzo, la mia diffidenza verso il nuovo “caso letterario” spagnolo – e verso le etichette editoriali più in generale – si è presto fatta disinteresse.

La questione è questa: quando un libro – come in questo caso – ha una trama pressocché nulla, il potere della parola si amplifica. La scrittura, per mantenere vivo il coinvolgimento, deve compiere il suo miracolo. E, narrativamente parlando, il potenziale qui c’era: un padre cui resta poco da vivere e una figlia che trascorre con lui il tempo che gli resta, prendendo rifugio nell’intimità delle piccole cose.

Ciò nonostante, molta della prima parte del libro di Sastre somiglia più a un esercizio scolastico in cui è richiesto di descrivere il proprio padre: in alcuni punti è toccante, poetico, perfino struggente, ma tendenzialmente monocorde e privo di dinamicità. La parola fatica a sostenere il passo dell’idea; i dialoghi risultano acerbi e poco armonizzati con la narrazione; i personaggi, primo fra tutti la figlia, che è voce narrante, non sono sviluppati al punto da ispirare una reale immedesimazione.

Non che mancassero pagine in grado di emozionare, per carità – l’impressione era comunque di qualcuno che sa cavarsela bene con le parole. In alcuni passaggi, come questo, la scrittura raggiunge una grazia semplice e autentica:

Solo che la magia, pur latente, non scattava. Mi accompagnava la vaga sensazione che qualcosa non funzionasse; forse accentuata dal fatto che, come lasciava già intendere l’incipit, al lettore veniva rivelato sempre qualcosa di troppo, privandolo di ogni spazio di immaginazione e rendendolo, di fatto, uno spettatore più che un co-partecipante nell’esperienza catartica desiderata da un romanzo.

Proprio quando avevo preso a leggere per inerzia, a metà libro è accaduto qualcosa di imprevisto. La storia, inaspettatamente, ha iniziato a muoversi, ha fatto irruzione una certa dinamicità: eventi hanno interrotto il flusso di pensieri e aneddoti, delineando una trama che, capitolo dopo capitolo, procedeva e incalzava la lettura, sporcando, positivamente, la ridondanza iniziale e l’indolenza della cronaca filiale. La curiosità del lettore era riguadagnata.

Ora, tra un libro che parte a razzo e si appiattisce nella seconda parte e uno che invece cresce con le pagine, la seconda opzione gioca certo più a favore del suo autore. Vuoi per un qualche bias cognitivo, vuoi per effetto recency, la sensazione che ho avuto al termine della lettura è che, nel complesso, il libro di Sastre forse lo regalerei. Ha il suo perché. Resta, però, il problema di fondo: serve la volontà di arrivare a metà romanzo per trovarvi qualcosa che vada oltre un poetismo a tratti stucchevole – aspetto, questo, che rimarca la necessità di un editing diligente, capace di trasformare un’opera, come questa, molto promettente in una pienamente riuscita.

Per concludere, Le frasi rubate è un testo narrativo che convince per metà – nella seconda parte più che nella prima – ma che rimane nel complesso meno scontato di tante altre uscite editoriali. Sia perché Sastre è uno che sa scrivere e, come si intuisce dal testo, sa anche leggere – qualità tutt’altro che ovvia, di questi tempi. Sia perché, che se ne voglia o no, è un libro che qualcosa da dire ce l’ha, portando una riflessione efficace sul tema del fine vita e toccando anche il nodo dell’eutanasia. Questo discorso, forse più di altri – come il principio di godere delle piccole cose, che alle volte sfiora il cliché – è trattato in modo tutt’altro che banale. 

Giulia Tardio