Ragionando sulla nuova raccolta di racconti di Mariana Enriquez, Un luogo soleggiato per gente ombrosa, appena arrivata in libreria per Marsilio con la traduzione di Fabio Cremonesi, ho pensato a due modi per introdurla ai lettori, entrambi – mi accorgo – che la riconducono a una tradizione letteraria, sorta di coordinate geografiche per orientarsi tra le parole di questa scrittrice-mistica.
Il primo è il legame con la realtà culturale e letteraria cui Enriquez appartiene e con il cuento: chi lavora con i racconti, chi li legge, chi li ama, è inevitabile che prima o poi faccia un’immersione nel cuento ispanoamericano, immersione da cui talvolta capita di non riemergere più per la meraviglia e la ricchezza di una letteratura che ha profondamente plasmato la narrativa breve come la conosciamo oggi. Parlando di racconti guardiamo immediatamente alla short story nordamericana, ma le sue radici affondano nella narrativa breve ispanoamericana e non dovremmo dimenticarcelo. Una tradizione letteraria di cui la scrittura di Enriquez è intrisa, ma che al contempo fa propria e rinnova e della quale – e qui siamo al secondo legame – accoglie le istanze di un genere, il gotico, seppur mutato nelle forme e nei contenuti ma la cui influenza non è mai venuta meno. La scrittura dell’autrice argentina risuona dunque dell’eco di Cortàzar e di Borges, di Amparo Dàvila soprattutto, ma anche di Poe, Stephen King, Lovecraft, Shirley Jackson. Non fa sconti, scandaglia l’orrore restituendo al lettore un quotidiano perturbante in cui realismo e fantastico si intrecciano. Un repertorio classico che influenza profondamente Enriquez e che si rinnova in racconti che trovano una propria dimensione e ragione di essere nella contemporaneità.
È proprio in questo intreccio di horror e denuncia sociale, folklore e quotidiano, che le sue storie si fanno molteplici. Un luogo soleggiato per gente ombrosa arriva in Italia dopo la pubblicazione di due raccolte fondamentali, in ordine di traduzione Le cose che abbiamo perso nel fuoco – il cui racconto eponimo è una delle narrazioni brevi più potenti e, mi perdonerete il gioco di parole, incendiarie di questi anni – e I pericoli di fumare a letto, entrambi a cura di Fabio Cremonesi (più un romanzo, La nostra parte di notte) e si colloca perfettamente nella bibliografia dell’autrice, un fil rouge che ne attraversa la produzione letteraria: il perturbante, l’ossessione, i corpi e il desiderio; le rovine della città, l’adolescenza quasi mai innocente, il trauma, la denuncia sociale.
L’ultima raccolta, pubblicata in originale lo scorso anno e appena approdata nelle librerie italiane, contiene dodici racconti in cui fortissima la presenza femminile: un femminile complesso, non privo di ombre, vittima e carnefice. Enriquez si addentra negli abissi della narrazione, nella violenza del quotidiano, nei pericoli di una società brutale e disperata; la lingua è affilata, affabulatoria, indugia sul dettaglio, è fatta di corpo e sangue, il grottesco e il mostruoso come parte stessa del reale. Dodici racconti disperati, popolati di strane creature, di fantasmi e di donne che parlano con loro, di un fardello tramandato di madre in figlia, di segreti e colpe con cui arriva il momento di fare i conti, di metamorfosi. Di violenza, dicevo, di una società decadente e brutale, l’Argentina, Buenos Aires, ma anche Los Angeles, New York:
Il centro era messo peggio del solito, non avevo mai visto così tanti homeless, così tante persone che parlavano da sole, così tanta desolazione e abbandono. (“Un luogo soleggiato per gente ombrosa”, p. 112)
Nel racconto eponimo, narrato in prima persona – come molti altri di questa raccolta – la protagonista, una giornalista che si è a lungo occupata di politica internazionale, scrive ora di folklore e «situazioni bizzarre» negli Stati Uniti. Inseguendo una di queste storie lascia Buenos Aires, passa per New York e arriva a Los Angeles, città amata e odiata da cui era fuggita otto anni prima a seguito di un lutto mai superato. Da una parte c’è la dimora delle amiche presso cui soggiorna, ai confini del deserto, la piscina, le stanze pulite ma, seppure flebile, l’eco di un mondo in rovina, il pericolo e i fantasmi da cui non riesce ad allontanarsi. Dall’altra le tendopoli dei senzatetto, le vite invisibili, la droga e le siringhe, i ricordi dolorosi della realtà cui apparteneva l’uomo che amava. E, ancora, il decadente hotel dove è stato ritrovato il corpo di una ragazza, misteriosamente annegata nella cisterna d’acqua sul tetto, dove ora si compiono strani raduni per tentare di mettersi in contatto con il suo fantasma, scoprire la verità. «So lonely, lonely, lonely»: la ragazza assassinata? Lei stessa? “Un luogo soleggiato per gente ombrosa” è un racconto sottilmente perturbante, in cui l’elemento orrorifico è più latente rispetto ad altre storie ma non per questo meno disturbante, stratificato. Una narrazione che si snoda su piani temporali diversi, i dettagli della storia sommersa abilmente disseminati sulla pagina, due binari che convergono nel finale. Le persone riunite su quel tetto cercano un contatto con il fantasma di Elisa, la giovane scomparsa, per altre protagoniste di queste storie il legame con il sovrannaturale è già parte delle loro vite, che lo vogliano o meno:
Non spedisco i fantasmi in nessun posto, né bello né brutto. Non c’è pace né conclusione. Non c’è riconciliazione. Non c’è trasformazione. Quelle sono tutte invenzioni. Io mi limito a calmarli per un po’ e a evitare che si ripresentino con una frequenza intollerabile per i vivi. Però tornano, come se si dimenticassero, e mi tocca ricominciare da capo. (“I miei tristi morti”, p. 22)
Una donna attira i fantasmi nel quartiere, che vengono da lei con il loro carico di rabbia, sospeso, desiderio di vendetta, vuoto, rassegnazione. Era iniziato tutto con il silenzioso fantasma della madre, una presenza che è rimasta in quella casa da cui entrambe non riescono ad andarsene, a cui se ne sono aggiunti altri, uno dopo l’altro, attratti lì dalla donna. «Tutti loro, i miei morti tristi, sono una mia responsabilità» (“I miei tristi morti”, p. 31) in un racconto in cui l’elemento fantastico, l’horror, è il pretesto per raccontare la violenza, l’indifferenza, la colpa. Dopotutto è sempre stato questo anche il gotico, mettere a nudo le paure profonde dell’uomo, i pericoli della società. Ecco dunque che nei racconti di Enriquez il mondo, la realtà, ha contorni ben più spaventosi e violenti delle presenze, delle strane creature che li popolano. In quasi tutte queste storie compaiono, più o meno protagoniste, le vittime di una violenza che nulla ha a che fare con il sovrannaturale bensì con la malvagità umana: ragazzine brutalmente assassinate che tornano a infestare le strade, bambine perdute, donne che hanno subito abusi, figlie abbandonate, madri alcolizzate e suicide, desaparecidos, homeless. È questa la parte più spaventosa delle storie di Enriquez, la realtà brutale che irrompe sulla pagina, come un dettaglio fugace ma impossibile da ignorare o al centro della narrazione del singolo racconto. E la facilità con cui si scivola nel male, i nomi che diamo alle cose per giustificarci, per continuare a vivere:
In realtà, quel pomeriggio la vittima avrebbe dovuto essere lui ma, ovviamente, non sapevamo che qualcuno sarebbe stato una vittima. È facile definire incidente ciò che abbiamo fatto, se dimentichiamo le nostre azioni successive, le bugie, il silenzio. (“Il cimitero dei frigoriferi”, p. 178)
Maestra dell’affabulazione, del mistero, del perturbante intrecciato alla denuncia sociale, Mariana Enriquez è senza dubbio tra le voci più importanti della letteratura ispanoamericana contemporanea e queste storie, pur parte del suo universo letterario, sono un passo ulteriore nella delineazione della propria voce autoriale. Interessante l’uso di punti di vista molteplici e piani temporali diversi, anche all’interno dello stesso racconto a suggerire ora una particolare vicinanza al personaggio, ora l’indefinitezza di identità, tempo, realtà o allucinazione. Sottilmente disturbanti, le storie di Enriquez esplodono sulla pagina mediante una scrittura che non fa sconti, che esplora gli abissi tra reale e fantastico, il dettaglio orrorifico, la società, l’umano e le sue colpe. Onora la tradizione su cui la sua identità e scrittura si fondano e reinventa il genere per mettere a nudo l’orrore reale delle società contemporanee, la violenza che le attraversa, la paura nei confronti dell’altro, del diverso, l’oppressione dei più fragili. Non consola, non fa sconti. Dodici racconti, ancora una volta incendiari.
Il suo corpo fu trovato sul marciapiede di calle Gallo, nel quartiere di Once. Si era buttata dalla finestra di un hotel. La stanza era all’ultimo piano. La sua morte sarebbe stata un sollievo in un altro mondo, in un’altra realtà. Un enorme sollievo. Ma io lo presi per quello che era. Un peso, una condanna e un incarico come messaggero che non le avevo chiesto e che non mi andava proprio di svolgere. (“La sventura in faccia”, p. 56)
Debora Lambruschini
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