Da sempre viviamo in un mondo che ci sottopone al suo sguardo, in una società che vorrebbe conoscere ogni nostra mossa. No, non si tratta di una teoria complottista, è semplicemente la realtà in cui ci troviamo: gli esseri umani si guardano intorno, scrutano l'altro, ne traggono ispirazione a volte. L'esistenza dei social network lo manifesta a chiare lettere. Guardarsi, tra esseri umani, è un fatto del tutto normale. Ci caratterizza. Tuttavia, essere visti è un'altra cosa, e Jane Tara con il suo romanzo Che bello vederti, Tilda lo dimostra senza tanti giri di parole.
Servendosi di una cifra stilistica ironica e caustica, che caratterizza il tono di voce della protagonista del titolo, l'autrice propone al lettore una storia attualissima, sebbene prenda inizio da un avvenimento impossibile, surreale anzi. Un giorno, infatti, sin dalle prime pagine, a Tilda Finch, che osserva le proprie mani, sparisce un mignolo. Poggia le dita sulla tastiera del computer e una di loro non è più nel posto in cui è sempre stata per più di cinquant'anni. La diagnosi medica arriva ben presto, chiara e limpida: Tilda soffre di invisibilità, una condizione di cui non ha mai sentito parlare fino al giorno in cui non ha coinvolto anche lei. Ben presto, impara che è più diffusa di quanto credesse, colpisce per lo più le donne, soprattutto di mezza età, che sono in menopausa. In poche parole, attacca coloro che non hanno più niente da dare e alle quali non rimane che invecchiare. O almeno questa è la visione che la società – e anche loro stesse – ha di loro. La parte peggiore della diagnosi, però, deve ancora arrivare. Sì, perché le possibilità che Tilda e altre come lei hanno di guarire sembra sfiorare lo zero per cento. In poche parole, sono condannate a vedere sparire prima le loro appendici corporee e, infine, a diventare del tutto invisibili.
Dalla lettura di questa storia, però, si impara che, innanzitutto, non bisognerebbe mai fermarsi a un solo, primo parere, e poi che essere invisibili agli altri non deve corrispondere per forza a esserlo anche per sé stessi. Jane Tara interpreta molto bene le esigenze delle donne mature, che difficilmente rivestono ruoli così centrali in letteratura: Tilda, così come le tante altre uguali a lei che incontra durante il suo percorso, ha smesso di essere importante per sé molto tempo prima che la malattia si manifestasse. Ha dato per scontata la sua esistenza, ha vissuto con il pilota automatico ed è diventata un paradosso: lei, co-ideatrice di una catena commerciale che usa messaggi motivazionali, parla a sé stessa con cattiveria e accanimento. Grazie all'esperienza di Tara nell'ambito psicologico, il lettore prende coscienza dell'esistenza della voce interna – che noi tutti possediamo – e del tono che essa usa per parlarci. Insomma, i nostri dialoghi interni. Anche Tilda è costretta a farci i conti e a dovere ammettere che la sua malattia ha preso forma dentro di lei e si è nutrita dei suoi pensieri nocivi. Non solo il presente della donna è una minaccia alla sua stabilità, ma anche e soprattutto il suo passato – l'infanzia è un tema ricorrente – rischia di compromettere il suo futuro.
«Se da bambina hai vissuto sul filo del rasoio, tutto il tuo mondo ne sarà rimasto influenzato». (p. 179)
Il tema dell'invisibilità – che qui smette di essere una metafora per potere agire su chi legge con maggiore efficacia – si lega proprio alla connessione mente e corpo. Il messaggio di Tara, affatto didascalico ed espresso, invece, con una scrittura divertente e dinamica, porta il lettore a considerare l'impossibilità di scindere queste due nostre parti: se la mente è ammalata, indebolita o abbattuta, allora anche il corpo sarà così. Ma non è solo il disagio personale a intaccare le nostre esistenze. L'essere umano non è un'isola, e questo Tara ce lo ricorda a ogni progresso di Tilda. Anche il rapporto con la società, gli affetti e le conoscenze vanno curate e coltivate con intenzione e premura. Il tema della solitudine, infatti, è forse quello più sentito nelle pagine del romanzo. Tutte le donne protagoniste hanno motivo di starsene per conto proprio, di rifiutare il mondo esterno e, talvolta, lo fanno. Così, sviluppano il germe dell'invisibilità e, pian piano, finiscono per scomparire alla vista altrui.
A riprova che quella della solitudine è una tematica cara all'autrice, la frase «Come vedi il mondo?» (p. 93), che tanto attanaglia Tilda, assume un peso risolutivo: il mondo può essere un posto pericoloso, insidioso e falso, ma, in un certo senso, per continuare a starci dentro siamo costretti ad appoggiarci al prossimo per apprezzarne di più i lati positivi, anche se talvolta ci sembrano minori. Il percorso della protagonista è, infatti, volto a una crescita interiore ed esteriore imprescindibile, visto che l'alternativa sarebbe quella di continuare a sparire, pezzo dopo pezzo. Jane Tara costruisce un romanzo confortante, avvolgente e, grazie a un'ironia leggera, anche anomalo: Tilda, sebbene sia una cinquantenne navigata, è la protagonista di un vero romanzo di formazione, segno che ci si può evolvere a qualunque età.
Camilla Elleboro
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