Mi è stato insegnato che nelle prime trenta pagine di un manoscritto c’è in un certo senso tutto quello che basta per capire se la storia esiste e se, come editor, valga la pena lavorarci su. Fingiamo per un attimo di non sapere che quello che abbiamo tra le mani è l’ultimo romanzo di un gigante della letteratura contemporanea, vincitrice di un Pulitzer. La prima sessantina di pagine è fatta di una narrazione frammentaria, brevi paragrafi, la sfilata di personaggi noti da romanzi e storie precedenti, come bozzetti incompiuti. Qui e là, lampi di bellezza abbagliante che all’improvviso arrivavano a squarciare la pagina. Poi però ho capito. L’ho capito dapprima senza rendermene conto, scivolando dentro la storia, assorbita dalle voci, dal racconto, e poi, proprio alla fine, me l’ha detto Lucy Barton, una delle protagoniste di questa storia fatta di molte storie:
La gente, - disse placida Lucy. – La gente, ciascuno con la sua vita. È questo il punto. (p. 192)
Ecco, questo è il senso di Raccontami tutto, l’ultimo romanzo di Elizabeth Strout, appena pubblicato da Einaudi come sempre con la traduzione di Susanna Basso e, mi verrebbe da dire, il senso della produzione letteraria tutta di Strout. Se gli ultimi due romanzi usciti erano a dir poco trascurabili, in Raccontami tutto è tornata la voce di un’autrice che ha il suo centro nella cittadina immaginaria di Crosby, nel Maine, nelle persone che la popolano, nelle loro storie, i drammi, le occasioni mancate, lo scorrere quieto del tempo, le scelte, i legami, le solitudini. La vita. La gente, appunto. Ed è Lucy, dicevo, a fornire al lettore una mappa per orientarsi tra le pagine, tutte quante:
Le mie storie sono queste […], sono storie fatte di solitudine e di amore […]. E dei piccolissimi legami che stringiamo nel mondo, se siamo fortunati. (p. 112)
Tra queste di pagine ho ritrovato un’autrice che temevo avesse perso smalto, il suo modo di stare nel mondo e raccontare le persone, lo sguardo pieno di grazia; la scrittura misurata, un sistema di immagini ben preciso, lampi di bellezza a squarciare le pagine. La connessione che crea con il lettore è profonda – non certo per quell’orrida mania di doversi riconoscere nelle storie, per carità – e parte già da quel “noi” incontrato nelle primissime battute, in quell’incipit che contiene le prime coordinate.
Questa è la storia di Bob Burgess, un uomo alto e massiccio che abita nella cittadina di Crosby, nel Maine, e al momento ha sessantacinque anni. Bob ha un gran cuore ma non sa di averlo; non diversamente da molti di noi, non si conosce bene come pensa, e non crederebbe mai che nella sua vita ci sia qualcosa che vale pena di essere raccontato. Invece è così; come per tutti noi. (incipit, p. 5)
Bob Burgess, un vecchio amico per i lettori di Strout, tra i protagonisti di questo romanzo insieme a Lucy Barton e Olive Kitteridge. Bob e Lucy sono diventati intimi amici da quando lei ha deciso di lasciare New York per stabilirsi a Crosby e regolarmente si incontrano per lunghe passeggiate fatte di parole che agli altri non riescono a dire. Forse è un sentimento diverso dall’amicizia, forse diventerà qualcosa di concreto. O sarà una di quelle «vite ignorate» di cui proprio Lucy e Olive iniziano a parlare e che, uno dopo l’altro, diventano appuntamenti irrinunciabili per entrambe. Olive ha novant’anni e lo stesso spirito pungente di un tempo; non è per nulla intimidita dalla fama di quella scrittrice di New York, ma avverte un legame con lei che visita dopo visita, una storia dopo l’altra, si fa sempre più concreto, reciproco. Lucy, da parte sua, nella franchezza di Olive riconosce un carattere indomito e attento, le loro chiacchierate si succedono settimana dopo settimana, stagione dopo stagione, inedita e non convenzionale versione delle Mille e una notte. Olive conosce molto bene Crosby e le storie che vi abitano, Lucy ascolta e condivide con lei altre storie, piccole, potenti, effimere, dolorose, liete, una dopo l’altra, in uno scambio reciproco che, almeno per un po’, permette a entrambe di sentirsi meno sole.
Di solitudini, infatti, è intrisa questa storia, nonostante – o proprio a ragione di – la moltitudine di personaggi, incontri, parole. Talvolta sono solitudini palesi, anziane che vivono sole, i figli lontani; altre volte scandisce la vita di adulti schiacciati da un passato di abusi e segreti, abituati a vivere ai margini; altre ancora si nasconde dentro vite in apparenza piene di legami, possibilità, moltitudini. Raccontami tutto attraversa ognuna di queste solitudini, nel bisogno profondo di creare una connessione con l’altro, sentirsi pienamente capiti e accettati. Ecco allora che quando accade è davvero un piccolo miracolo del quotidiano. Non importa che nome dare al legame che si crea tra Lucy e Bob, tra Lucy e Olive, quello che conta è quel miracolo lì, sentirsi davvero, fino in fondo, visti e capiti. Perché in fondo non è di questo che tutti, tutti quanti, abbiamo bisogno? Prima ancora, sembra dirci però Strout in questa storia, è necessario comprendere noi stessi e, qualche volta, perdonarci.
Questi esseri umani imperfetti, la gente appunto, le storie che sono, è questo il centro nevralgico della scrittura di Strout, quello che ritrova finalmente in Raccontami tutto. Una moltitudine di storie e personaggi in cui davanti a tutti ci sono Olive, Lucy e Bob, di cui il lettore conosce le luci e le ombre, il passato, le colpe, gli atti di grazia. Ogni lettore di Strout ha un personaggio a cui inevitabilmente finisce per affezionarsi in modo particolare e Lucy Barton è da sempre il mio, per tante ragioni. Eppure stavolta è Bob Burgess a calamitare la mia attenzione, per quel miscuglio di umana fragilità, dubbio, cuore, errore. Sappiamo bene qual è stato il peso segreto di Bob, la colpa che per buona parte della vita ne ha determinato il modo di guardare sé stesso e il modo di porsi al mondo; tutto è cambiato anni prima, con la confessione dell’amato fratello Jim e una nuova consapevolezza con cui fare i conti. A distanza di tempo siamo di nuovo qui, il peso della morte del padre quando Bob, Jim e la sorella Susan non erano che bambini, si è intrecciato a sensi di colpa, segreti, identità modellate su un’idea, su un sentimento. Ma qual è la verità? È quella confessata da Jim? È quella che Bob per buona parte della sua vita ha creduto come tale? E Susan? Gli anni si sono accumulati e sono state fatte delle scelte, buone o sbagliate che siano state hanno portato fino a lì, agli adulti che sono, alle vite che hanno costruito o fatto a pezzi, rischiato di perdere, rimesse insieme. Al tipo di persona che ognuno dei fratelli Burgess è diventato. È importante adesso sapere la verità di quel giorno? Chi sarebbe Bob Burgess se non fosse stato gravato dal peso del senso di colpa, lui che Lucy definisce un «mangiatore-di colpe» per quell’istinto di farsene carico, sempre?
Oggi, di certo, è un uomo che ancora una volta non si tira indietro di fronte a una richiesta d’aiuto: risponde all’accorato appello di Diana Beach affinché si occupi del caso del fratello Matthew, sospettato di aver ucciso la madre. Tutti in città conoscono la famiglia Beach, per lo più la disprezzano e se ne tengono alla larga. Vivono ai margini, da sempre, isolati nella loro apparente povertà, oppressi da una madre sulla cui sparizione nessuno a Crosby direbbe di sentirsi dispiaciuto o di farne una colpa, nel caso, al figlio. Bob risponde alla richiesta di aiuto e quello che fa va ben oltre i doveri dell’avvocato. Senza buonismi o inutili slanci sentimentali, Strout imprime in queste pagine il dolore e la rabbia, le solitudini e le connessioni umane, gli abusi, la violenza, la quiete e la bellezza. Non tutte le vite possono essere salvate, non tutte le colpe riparate. Ma possiamo raccontarle, possiamo fare in modo che quelle storie trovino una voce e qualcuno disposto ad ascoltarle, a farsene carico.
Raccontami tutto è fatto anche, si diceva, di quelle «vite ignorate» che non sono state, delle scelte prese, di qualche rimpianto e di molti segreti taciuti. Una di queste si rincorre in ogni pagina, al lettore seguirne le tracce e vedere dove conduce. Arrivata alla fine mi rendo conto che non è solo un romanzo, ma anche il canto d’amore di Strout alle parole, alla scrittura, di cui ogni pagina è intrisa non soltanto per la natura del mezzo scelto per raccontarla, un libro, ma per quei rimandi metaletterari disseminati lungo la narrazione, per come l’autrice sembra camminare tra quelle stesse vie, dentro le vite dei suoi personaggi, il legame che crea di nuovo con i suoi lettori.
Il modo che Strout ha di guardare le cose, di sentirle, di imprimerle sulla pagina è il suo dono a noi lettori, grati stavolta di aver ritrovato un’autrice che sembrava aver tradito sé stessa e la sua scrittura con qualche storia non davvero riuscita. Crosby, Olive, Lucy e tutti gli altri a cui tornare ancora, non per dovere, paura o convenienza ma per l’esigenza di farlo, di raccontare ancora, testimone di quelle vite immaginarie, di quei personaggi che si fanno di carne e sangue. Non ho idea di quali siano i progetti di scrittura di questa autrice amatissima, ma per quanto mi riguarda Raccontami tutto è la chiusura ideale di un ciclo. Ci saranno altre storie, a Crosby o altrove, senza Lucy, Olive, Bob, che spero Strout possa ancora donarci. Per adesso restiamo ancora un attimo qui dentro, a riflettere sul potere straordinario delle storie, su quanto profondo sia il bisogno di costruire legami, di quanta solitudine ma anche di quanta struggente bellezza c’è intorno a noi. E stavolta sì, tutto è ancora possibile.
Debora Lambruschini
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