Una domenica mattina di metà estate un uomo, Neddy Merrill, è «disteso vicino all’acqua verdognola, una mano immersa nell’acqua e l’altra stretta intorno a un bicchiere di gin» a bordo della piscina in casa di amici. Ha appena finito di nuotare quando ha un’idea: tornare a casa sua a nuoto, attraverso le piscine della contea, nelle case di amici, conoscenti, pubbliche. Si alza, saluta tutti, intraprende il suo viaggio in quello che chiamerà fiume Lucinda, in omaggio alla moglie. Un paio d’ore forse, per arrivare a casa. Non sarà proprio così.
Se amate i racconti, avrete riconosciuto facilmente la storia cui mi riferisco: Il nuotatore, il capolavoro di John Cheever, apparso per la prima volta sulle pagine del «New Yorker» più di sessant’anni fa (era il luglio 1964) e non invecchiato di una sola virgola. È un racconto che si legge moltissimo e si discute anche di più, tra corsi di scrittura e riflessioni critiche. Ora, visto che ci sono fiumi di parole che potrei spendere per parlare di questa mirabile short story – probabilmente più di quelle della storia stessa – mi fermo qui perché non è de Il nuotatore che sono qui a scrivere, ma di una pregevole novella uscita un paio di mesi fa per Sur, il cui richiamo al racconto di Cheever è chiaro fin da principio, insieme ad altri echi di una certa narrativa statunitense degli anni Sessanta – ma non solo.
Mi riferisco a Il colpo segreto di Jessica Anthony, tradotto da Dario Diofebi per Sur appunto, che per prima un paio di anni fa portava in Italia Anthony con il romanzo Arriva l’oritteropo e che oggi ancora di più merita una certa attenzione di pubblico e critica con questa storia. Come nel racconto di Cheever, la piscina è in qualche modo protagonista, il luogo in cui le crepe sulla facciata si fanno inevitabilmente sempre più profonde ed evidenti.
Per Cheever il viaggio dell’eroe era quello del suo Neddy Merrill, che, bracciata dopo bracciata, si spoglia di ogni certezza svelando la crisi profonda in cui è finita la sua vita; per Anthony la piscina è quella del condominio nel Delawere in cui vive la protagonista, Kathleen, insieme al marito e ai due figli. Piscina da cui, in un’insolitamente calda domenica mattina di novembre decide di immergersi, saltando la consueta tappa in chiesa – perché così fa «la gente perbene», la domenica va in chiesa – per restare in acqua, ora dopo ora, rifiutandosi di uscire nonostante le insistenze del marito. Ecco qui un’altra porta che si apre, un’altra connessione: Bartleby lo scrivano, altro racconto magistrale, di Melville. In realtà il rifiuto di Kathleen e quello di Bartleby posano su ragioni diverse, ma il richiamo a quella storia non è poi così estraneo. Il rifiuto della donna è, più di tutto, una sospensione, così come in un certo senso lo è la novella tutta, una sospensione del tempo tanto che quello narrativo procede più per flashback e digressioni e quello della storia è condensato nell’arco di una sola giornata. È il desiderio di una sospensione dalla realtà opprimente in cui vive, un quotidiano in cui la discrepanza tra la donna che è e la donna che avrebbe voluto essere è diventata insopportabile.
Ma Kathleen non era ancora pronta a uscire dall’acqua. Una volta che ne fosse uscita, tutto sarebbe tornato alla normalità, e la normalità non era più una condizione accettabile. (p. 133)
Eccole qui, di nuovo, le crepe sulla facciata del perbenismo borghese. Siamo in un’amena cittadina del Delawere, è il 1957; c’è la Guerra Fredda e lo Sputnik II ha lanciato in orbita la cagnolina Laika condannandola a morte certa, a bruciare nel vuoto, mentre milioni di individui stanno col fiato sospeso, la tensione sottile che attraversa l’ordinarietà di quelle vite tra sogni frustrati, segreti, desiderio di essere felici. Anthony cala la sua storia nel 1957 e non per una sterile operazione nostalgia o per il fascino decadente di un matrimonio che si sgretola mentre tutto intorno dovrebbe gridare benessere e successo; no, sceglie di radicare la sua storia esattamente in quel momento per l’eco di quella tradizione cui si diceva in apertura e perché per certi versi – quelli più preoccupanti – la nostra realtà tutta sembra essere tornata indietro nel tempo e a certe tensioni internazionali. Con la differenza che adesso non abbiamo più nemmeno l’apparenza del benessere – o forse sì, se guardiamo a certe narrazioni social distorte – e non ci sono staccionate bianche e giardini curati a creare l’inganno della crisi che è in corso.
Dunque Kathleen, che una domenica mattina di novembre si immerge e non vuole più uscire dalla piscina. Il marito, Virgil Beckett, va a messa con i figli, ritorna, prova a convincerla a più riprese, scambia due parole con i vicini, telefona al padre lontano, parla col proprietario del condominio. Questo è né più né meno quello che accade in scena, fino al finale. Ma Il colpo segreto è fatto soprattutto dei suoi numerosi flashback e digressioni nei punti di vista alternati ora di Kathleen ora di Virgil che raccontano la vita che li ha condotti fino lì, fino a quella crepa che non è più possibile ignorare.
Alla fine, Kathleen arrivava sempre alla stessa conclusione: aveva sposato Virgil Beckett perché era facile. Era cinque centimetri più basso di lei, ma stavano comunque bene a vedersi, come coppia. Insieme erano, come aveva detto una volta la sua amica Patricia, «come due frutti nella stessa cesta». (p. 56)
Immerso nell’acqua c’è anche il passato di Kathleen e la sua verità, l’infanzia solitaria e le liti furiose dei genitori, i successi sportivi messi da parte bruscamente, il fidanzamento e il matrimonio, la vita coniugale, il trasferimento, la maternità. Sul campo da golf dove Virgil nel frattempo finge che sia tutto normale, una domenica come le altre e che sua moglie frattanto sarà riemersa dai propri abissi, altri pezzi di vita a comporre il mosaico delle loro identità e della storia comune. Una madre persa tragicamente, le opportunità della bellezza, l’incontro con Kathleen, i numerosi tradimenti, l’alcolismo, i colleghi e i loro guai, la crisi, la crisi, la crisi.
La solitudine profonda in cui sono immersi, pur circondati dalle persone, nella vita domestica stessa, si intreccia alla crisi della coppia che è prima ancora quella dell’individuo, nella discrepanza tra la vita immaginata e ciò che invece è diventata. Altri echi, eccoli qui, in quella discrepanza: certi racconti di Paolo Zardi, le immense solitudini e le frustrazioni di Richard Yates nume tutelare che aleggia lungo tutta la narrazione, le infelicità coniugali di Carver, la moglie in fuga di Michael Cunningham de Le ore. Non fatevi trarre in inganno però da queste porte che apro: se è vero che Il colpo segreto si fonda su una tradizione ben distinguibile sarebbe un torto considerarlo solo un omaggio o sottovalutarne il valore letterario, la sua originalità.
Jessica Anthony costruisce un racconto che guarda al passato e ai maestri che l’hanno preceduta ma trova la sua dimensione, la sua postura autoriale. Lo fa nel fraseggio – brillantemente reso dalla traduzione di Diofebi –, nella lingua elegante, pulita, mai dimessa, nella tenuta costante di una tensione che corre lungo ogni pagina fino al finale, nell’equilibrio con cui mostra e nasconde l’iceberg della storia. The Most, il titolo originale della novella, “il massimo”, “di più”: è questo il massimo della felicità che la vita gli ha concesso? Riemergere dalla piscina, tornare a loro due, fermerà la crepa sulla facciata? C’è qualcosa ancora di recuperabile tra loro, nelle loro vite? Ha detto molto bene Andrej Longo in un editoriale pubblicato su «Osservatorio Cattedrale»: «nel romanzo sono importanti le risposte che si danno. Mentre nel racconto sono le domande ad essere fondamentali». Ecco, Jessica Anthony ha decisamente posto delle domande fondamentali.
Debora Lambruschini
Social Network