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Tre bambini in fuga e la geografia dello spaesamento: “Gli espulsi” di Edgar Borges, una delle voci più interessanti della letteratura spagnola contemporanea

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Gli espulsi
di Edgar Borges
Inknot Edizioni, 3 giugno 2025

Traduzione di Gianfranco Pecchinenda 

pp. 152
€ 18,00 (cartaceo)
€ 7,99 (eBook)

Espellere.
Mandare via una persona da un luogo. La caduta dell’uomo, la sua cacciata dal paradiso. La negazione della casa. Estrarre qualcosa da dentro e gettarla fuori. (p.7)

E se a essere espulsi fossero dei bambini? Se a perdere la casa, il linguaggio e il senso del mondo non fossero gli adulti, ma coloro che dovrebbero ancora abitarlo con innocenza? È da questa ipotesi, narrativa e profondamente simbolica, che prende avvio Gli espulsi, romanzo breve e folgorante di Edgar Borges, pubblicato in Italia da Inknot edizioni, nella traduzione di Gianfranco Pecchinenda. Nel cuore de Gli espulsi si annida un gesto radicale: mostrare l’infanzia non come fase della vita, ma come soglia, spazio di lotta che viene sistematicamente repressa, espulsa, appunto, da un mondo adulto irrigidito nei suoi codici. Borges, scrittore venezuelano classe 1966, vive da anni in Spagna e ha all’attivo una produzione letteraria stratificata e visionaria, in bilico tra narrazione simbolica e riflessione filosofica. L’ultimo lavoro sembra condensare in forma più estrema e compatta quel suo modo inconfondibile di scrivere: denso, ellittico, poetico, lontano da ogni forma di linearità narrativa. 

Protagonisti del racconto ci sono tre bambini - Sara, Andreu e Marta -  che fuggono, e il lettore non sa all’inizio da cosa o da chi. La loro corsa è cominciata subito, siamo in medias res, nel mezzo della narrazione, e tutto ciò che accade dopo - l’attraversamento di spazi come la scuola, la discoteca, il bosco - si carica di una tensione interiore che è più una metafora che una azione vera e propria. Borges agisce sull’inquietudine, su quel senso di smarrimento che è tipico dell’infanzia quando si trova esposta a un mondo che la rifiuta. Quei luoghi simbolici fanno parte, appunto,  di quella che fin dalla prime pagine del romanzo viene definita «geografia dello spaesamento» (p. 7). La scuola, ad esempio, non è solo un luogo fisico, ma il primo contatto con un sistema di pensiero estraneo, dove la spontaneità non trova spazio e la parola diventa rigida, innaturale disciplina. È qui che si consuma la prima frattura tra l’universo dei bambini e quello degli adulti, tra un linguaggio ancora libero e simbolico e un codice razionale che pretende obbedienza, chiarezza e forma. Ma i tre bambini parlano con un’altra lingua, costruita più con le immagini e le intuizioni, che con la logica. Non a caso, i loro dialoghi con gli adulti si trasformano in scontri silenziosi, in episodi di incomunicabilità carichi di tensione emotiva. 

Giunti nei pressi dell’ingresso, il docente volle dare un consiglio al ragazzo.
 - Caro allievo Andrieu, se mi permette, vorrei darle un buon consiglio. Non si dedichi troppo all’immaginazione, altrimenti potrebbe finire come quei chiacchieroni di strada. Glielo dico perché. Di tutto cuore, desidero una buona vita per tutti i miei discepoli.
La parola “discepoli” mise a disagio Andrea e Sara. Probabilmente quella fu l’unica volta in cui il professore si rivolse loro in quel modo. Quella semplice parola era riuscita a creare una sensazione di paura negli sguardi dei due alunni. Poco ci mancava che ognuno riuscisse a vedere se stesso. Chi erano i suoi discepoli? Nessuno dei due osò analizzare i possibili significati di quella parola e le sue conseguenze. (p. 44)

Tra educazione e ammaestramento, Borges fa emergere l’ambiguità del linguaggio adulto, che finge di voler bene, ma in realtà impone, normalizza ed esclude. Il romanzo si muove su un crinale instabile tra racconto e allegoria. Nella discoteca, ad esempio, luogo di evasione illusoria, le note di David Bowie e di Gotye non liberano, anzi amplificano il senso di smarrimento. Sara danza, e nell’incontro con Daniel sfiora un momento di intimità che si dissolve, anzi viene risucchiato nel vortice del sospetto e della delusione, perché quel ragazzo diventerà poi carceriere, tradendo il gruppo. La “caduta” di Daniel riporta al silenzio il corpo di Sara che cercava libertà, fantasia, desiderio. Quella discoteca è carica di una dimensione rituale, in cui il corpo ritrova un ritmo che sfugge al controllo, mentre nelle pagine finali, il bosco, ultima tappa del viaggio, assume i contorni di uno spazio marginale, dove il linguaggio adulto si dissolve e resta solo il contatto con ciò che essenziale: l’istinto, la percezione. Borges compone un percorso della censura, in cui ogni tappa del percorso diventa anche un movimento interno. L'infanzia non è più solo una fase della vita, ma una soglia da attraversare, un luogo di lotta e di invenzione. Espulsi non sono solo i bambini come personaggi, ma l’infanzia stessa come opportunità, quella di non essere ancora addomesticati dal codice normativo degli adulti.

Solo molti anni dopo, Marta avrebbe compreso che l'infanzia si perde quando ci viene educato lo sguardo. Da bambina, lei era stata una selvaggia radicale. L’arancia si trasformava in un limone. Lo zucchero filato in una comunità di folletti. Il padre in un pasticciere. E così aveva imparato che le millefoglie gratis hanno sempre il doppio della crema. (p. 48)

Solo nelle pagine finali, come anticipato già all’inizio del romanzo, quando il ritmo della prosa si fa ancora più ellittico e rarefatto, emerge in controluce una verità taciuta, ma che improvvisamente dà nuovo significato a tutto ciò che è accaduto prima: la fuga dei bambini non è solo un gesto metaforico, non riguarda soltanto la distanza da un linguaggio adulto che opprime, ma scaturisce da una violenza concreta, rimossa, difficile da raccontare. È in quel momento che si rivela, come attraverso uno squarcio improvviso, la natura dell’abuso subito, e l’infanzia si configura non più soltanto come luogo di immaginazione censurata, ma come territorio violato. Questa tardiva emersione del trauma non è un colpo di scena, ma un’ulteriore profondità del testo. 

In questo quadro si inserisce anche la figura di Andreu, legato sin dalle prime pagine a un razzo: un’immagine che potrebbe sembrare infantile o persino ingenua, ma che a posteriori si rivela stratificata. Il razzo non è solo desiderio di evasione, ma anche metafora di una spinta incontrollabile, di un destino non scelto, della pressione a fuggire più che di una reale libertà. 


Ma è anche sul piano grafico e ritmico che Borges mette in atto la sua resistenza ai codici normativi della lingua. La sua scrittura, sperimentale e sfuggente, rompe continuamente la linearità: spezza il discorso in righe isolate, inserisce pensieri brevi come sospensioni emotive, quasi a voler rappresentare graficamente una reazione interiore. A volte compaiono elenchi marcati da asterischi, che restituiscono non un ordine, ma un flusso associativo, come se ogni parola attivasse una rete di significati nella mente dei bambini. Sono segni visivi di un’altra logica, quella dell’immaginazione, che non procede per gerarchia, ma per evocazione, slancio, intuizione. Da questo punto di vista, Gli espulsi è un libro che chiede di essere letto lasciandosi disorientare, accettando che il senso emerga per frammenti, e che qualcosa resti inafferrabile. 

Andreu rifletté su quella frase come se si trattasse di una sentenza che lo coinvolgeva. “Quella gente vive solo di immaginazione”. Come se solo nell’immaginazione accadessero le bugie.


Immaginazione.

*Nuvola.

*Uno sguardo su un’altra realtà.

* Una visita volontaria in un altro spazio della vita. (p. 40)

Gli espulsi non è una lettura facile, sicuramente è una avventura letteraria in quanto la scrittura di Borges sfugge ai generi e ai registri consueti. L'autore lavora per accumulo di immagini, per slittamenti improvvisi, per piccoli squarci di senso che si aprono e si richiudono come lampi. Ne risulta una prosa ipnotica, in cui l’esperienza di lettura si avvicina a quella del sogno, perché è sfuggente, straniante. Per potersi avvicinare a questo libro il lettore non dovrà pretendere di capire tutto, ma lasciarsi attraversare da questi frammenti, da questi respiri brevi. 

Borges non racconta solo una fuga, un'espulsione, ma suggerisce una forma di ribellione, quella dell’immaginazione, quella forza che entra in gioco quando appare il non detto. In un tempo, come quello che viviamo, che tende a espellere tutto ciò che sembra complesso, tutto ciò che non è immediatamente leggibile e utile, l’autore ci pone all’ascolto di qualcosa che può ancora essere salvato.

Marianna Inserra